1° giorno
In una giornata di metà dicembre con un Frecciarossa da Bologna raggiungiamo Milano (62’, 19€ per un biglietto preso con anticipo di un mese) da dove con il Malpensa Shuttle raggiungiamo l’aeroporto di Malpensa (70’, 10€). Ora c’è anche il treno che raggiunge Malpensa, ma il tempo è il medesimo, costa di più e le partenze non continue come coi vari shuttle che fanno base all’uscita della stazione. L’aeroporto è deserto, al check in della Oman Air la coda è lunga ma scorrevole, ai metal detector non c’è nessuno come al controllo passaporti (per una volta controllano che ci sia e sia stata annullata la marca da bollo) ed in un attimo siam pronti per l’imbarco, puntuale. Partenza destinazione Muscat (5.055km, 6h) capitale dell’ Oman ed ovvio hub per la compagnia di bandiera. Il solito ottimo servizio di bordo inizia ad operare con salviette cade, bevande e stuzzichini prima della cena vera e propria. Ogni poltrona è dotata di schermo personale con ingresso usb, forniscono oltre alle cuffie anche il kit confort cosa rara sui voli di compagnie occidentali. Cena alla carta poi le luci si abbassano per chi tenta di dormire, per chi vuole tra giochi elettronici, film (anche in italiano) e diavolerie varie non c’è modo di annoiarsi. Temperatura non elevata, la coperta regolarmente fornita viene utilizzata.
Particolare dei 2.487 a Kakku
2° giorno
Atterriamo nella capitale dell’Oman in perfetto orario, i lavori nei dintorni dell’aeroporto paiono sempre intensi, ma il nuovo terminal in costruzione da qualche tempo non è ancora completato, la temperatura è prossima ai 30° ma non abbiamo occasione di starcene all’aperto perché occorre passare le operazioni di dogana velocemente e raggiungere l’imbarco per Bangkok (4.937km, 6h) dove dopo aver nuovamente mangiato diverse volte atterriamo in perfetto orario. Il ritiro del bagaglio è immediato e tiriamo un grande sospiro di sollievo visti i tempi strettissimi (meglio, di corsa), ad un bancomat della Siam Bank preleviamo (tutti chiedono una commissione di 150b, ne trovate d’infinite banche) ed usciti dall’aeroporto prendiamo un taxi ufficiale per raggiungere il centro città (450b, da dividere fino a 4 persone, costa come uno shuttle) in zona Khaosan Road, meta di tutti i backpakeristi del mondo. Troviamo alloggio al Cozy Thai G.H. (doppia 750b compresa la colazione, acqua minerale e wi-fi) in Th Tani dove lasciati gli zaini usciamo subito per scaldarci nel caldo della capitale thailandese, al solito stracolma di gente di tutto il mondo Per cena una delle tantissime bancarelle lungo Th Rambutri (50b), è già sera, il sole calato da ore ma il caldo è ancora elevato, sarà lo sbalzo dal freddo di casa ma la differenza è forte. Come al solito a Bangkok par di incontrare l’intero occidente qui in vacanza pronto a partire per le infinite mete sudorientali, i prezzi per ogni tipo di spostamento rimangono invariati negli anni.
U Bein’s Brigde ad Amarapura
3° giorno
Colazione in hotel, poi con uno shuttle prenotato da BKK (55’, 120b) raggiungiamo l’altro aeroporto di Bangkon, Don Meaung, base logistica di Air Asia il più diffuso vettore low cost del sud est asiatico. Check-in automatico già fuori dall’aeroporto, pratiche velocissime e volo per Mandalay puntuale (2h) dove atterriamo in un aeroporto nel mezzo del nulla, vuoto assoluto, sicuri che il Myanmar sia aperto ai viaggiatori indipendenti? Le formalità doganali sono velocissime (c’è da dire che a parte il nostro volo nessuno era presente), i bagagli son già stati scaricati dal nastro trasportatore e si esce nell’atrio principale dove i taxisti fan la corte ai nuovi arrivati. Il tempo di prelevare ad un bancomat (sì, funzionano con normali carte Cirrus/Maestro, ne ho la prova!) ed usciti andiamo incontro alla prima bella sorpresa. Air Asia mette a disposizione dei suoi clienti un free shuttle, l’aeroporto dista 45km dalla città, strano visto che siamo nel mezzo del nulla, e così ci risparmiamo la spesa del taxi (altri servizi pubblici non ci sono). Veniamo scaricati a ridosso del fossato dell’enorme spazio attorno al Mandalay Palace, da lì dribblando il traffico di motorini raggiungiamo il Royal Guest House (10$ con colazione e wi-fi di una lentezza irreale), da non confondersi però col Royal Hotel, stesi proprietari ma costi diversi. E’ una specie di piccolo labirinto in miniatura, stessa cosa per le camere, bello e pieno di gente in viaggio per proprio conto, luogo ideale per recuperare info su qualsiasi cosa da farsi non solo a Mandalay ma in Myanmar in generale. Tutti offrono passaggi in mototaxi o trisaw (bicicletta con sidecar) ma decidiamo di percorrere a piedi il marciapiede che corre a fianco del Mandalay Palace, la temperatura perfetta è molto invitante, non facendo però bene i conti su quanto sia lungo questo percorso per raggiungere l’angolo a nord-est dove si trovano le pagode più importanti e l’ascesa per la Mandalay Hill la collina che domina la vallata. Una volta arrivati iniziamo a visitare le molteplici pagode, sempre scalzi (ma meglio portarsi appresso le scarpe non perché potrebbero rubarle, quello non avviene mai, ma perché più di una volta si esce da un posto diverso rispetto all’entrata), come prima tappa la Kyauktawgyi, poi la spettacolare Sandamuni tutta attorniata da centinaia di stupa bianchi, la Kuthodaw, il monastero Shwenandaw (dove per entrare occorre per forza avere il famigerato biglietto cumulativo da 10$) affascinante perchè tutto in legno e per terminare l’altro monastero attiguo, Atumashi (per impratichirsi da subito, paya=pagoda kyaung=monastero). Da qui visto l’orario che volge al tramonto e per apprezzarlo nel modo migliore, con un taxi (10.000k, per ascesa attesa e rientro in GH) saliamo alla Mandalay Hill. Da qui si nota come il fiume Ayeyarwady scorra fuori città, la città sorga in una piana polverosa dove in estate il caldo possa essere massacrante mentre ora la temperatura rimanga perfetta per muoversi, ma le decorazioni, i numerosissimi Buddha ecc.. sono un po’ troppo scolastici, ed il tutto sorge nel bel mezzo delle bancarelle, situazione che diventerà la norma in Myanmar, il sacro a braccetto con gli affari. Una volta calato il sole la temperatura scende velocemente e la città si svuota ancor più velocemente, pare tutto deserto e ci incamminiamo verso il mercato serale che si trova lungo la 84th, nel bel mezzo della strada. Ma anche qui non è che ci siano tanti locali per mangiare, dopo lunga ricerca facciamo tappa da Daw Sin Yon (2.800k) e ci fermiamo per un caffè nell’animatissimo Kafewek (350k), lungo la strada anche questo, tavoli bassi e sedie bassissime, siamo gli unici stranieri presenti e diventiamo l’attrazione serale. Alle 21:30 il deserto avvolge il centro di Mandalay, la temperatura ci costringe a far ricorso almeno ad una felpa, contrasto forte col pomeriggio solare.
Yangon, venditrici alla stazione dei bus di Aung Mingala
4° giorno
Colazione nella piccolissima saletta della GH (uova che si ripeteranno in ogni luogo…frutta, pane tostato con marmellata e burro, caffè o tè, succo di frutta) dove avevamo recuperato info per l’escursione verso Mingun. Raggiungiamo nel mezzo di un traffico folle di motorini il Mayan Chan Jetty per la partenza della nave (5.000k), non serve procurarsi prima il biglietto, di barche ne partono diverse tutte alle 9, come si sia destinati in una piuttosto che in un’altra è vago, ma poco importa, risaliamo lentamente l’Ayeyarwady che in questo periodo è in secca ed i viaggi a nord verso Myitkyna sono sospesi. Il freddo iniziale lascia spazio ad una temperatura ottimale, ci si può sistemare al sole sul ponte superiore, si usano sedie e sdrai in vimini piazzabili a piacimento, tutto molto improvvisato, il relax è però immediato, ammirando campi in lavorazione e scorgendo le prime pagode dorate nella campagna. Già prima di arrivare a Mingun si scorge l’enorme basamento della Mingun Paya, mai terminata perché un terremoto devastò la zona e crepò la base, base che rimane quella della pagoda più grande al mondo, come la campana sospesa poco lontano. Qui si scorge già quale sia il mezzo di trasporto più utilizzato fuori dalle città, il carro trainato dai buoi o da un cavallo, genericamente chiamato Oscar, quindi quando vi viene proposto questo nome sappiate che di trasporto su carro si tratta. Ma Mingun può essere girata tranquillamente a piedi (3.000k biglietto cumulativo valido anche per Sagaing), tra pagode e monasteri, fino alla spettacolare Hsibyume Paya, come onde del mare che salgono bianchissime verso il cielo blu. Da lì si dipana il vero e proprio villaggio che però non presenta nulla di veramente interessante, se non una prima presa visione del Myanmar più rurale. Prima di reimbarcarci facciamo tappa al Rest. Point (2.800k) con vista sul fiume, toccata terra a Mandalay prendiamo un pick-up (5.000k) per l’ingresso del Mandalay Palace (compreso nel biglietto cumulativo) dove visitiamo questo complesso che fu la residenza reale fino all’ingresso degli inglesi nel 1885 (per chi fosse interessato consiglio la lettura del libro di Amitav Ghosh Il Palazzo Degli Specchi, che ricostruito si trova qui all’interno). Molta parte non centra nulla col palazzo reale, ci sono abitazioni dei militari e spazi a loro dedicati, quanto rimane, o meglio è stato ricostruito, è al centro del complesso, tutto in legno ma chiaramente ricostruito in tutta fretta in tempi recenti, si può salire sulla torre Nan Myint Saung dove ammirare il panorama completo del palazzo e della città. Incrociamo anche la banda militare e visto dove siamo prima di accennare una foto chiediamo se sia possibile, non solo lo è ma ne sono contenti, come apprenderemo in seguito viaggiando per più posti, la presenza militare pare ridottissima, segno di cambiamenti o di presenza dissimulata. Da qui in mototaxi (3.000k) facciamo un’escursione nella zona definita la cittadella dei monaci, a sudovest del centro, luogo che al tempo della rivolta dei monaci nel 2008 fu molto calda, prima però sosta alla Mahamuni Paya, per gli abitanti del luogo la più sacra, dove le donne non possono avvicinarsi alla statua del Buddha Mahamuni, proveniente dal controverso stato del Rakhaing, zona attualmente di guerra e non visitabile se non pochi e circoscritti luoghi. Gli autisti delle moto devono venirci raramente da queste parti perché non trovano i monasteri, dobbiamo farceli indicare dagli abitanti del luogo e sfruttare le nostre cartine, matita alla mano per riportare svolte varie. Riusciamo comunque a far tappa allo Shwe In Bin Kyaung, al Ma Soe Yein Nu Kyaung (dove si concentra il maggior numero di monaci della zona) e lo splendido e decadente Tingaza Kyaung, tutto in legno ed abitato da 2 soli monaci che paiono più due punkabestia che altro, ma ovviamente gentilissimi e disponibili a farci visitare il complesso attraverso precarie passerelle dove le tarme più volte hanno avuto la meglio sul legno. A differenza di tanti monasteri o pagode quasi tutti ricostruiti e privi di fascino, questo rappresenta un’importante eccezione, la data di costruzione del 1.500 per una struttura di legno infonde un fascino unico anche se non riconosciuto dai più perché in pochi sapevano indicarci come accederci. Rientrati in GH quando il sole è già tramontato, usciamo per cenare nel buio e quindi nel deserto cittadino, ci accomodiamo da Mt Pan T Rest (2.800k), non lontano dalla GH.
Lago Inle, mercato settimanale a Thaung Tho Kyaung
5° giorno
Solita colazione in GH poi col taxista che stazione fuori dalla GH (Chit Chit) classico giro dei dintorni di Mandalay (30.000k, cifra standard che chiedono tutti i taxisti) con prima destinazione Sagaing, antica capitale del 1.300 immersa in dolci colline interamente coperte da dorate pagode. Ci si arriva attraversando l’Ayeyarwady da cui si gode un’ottima vista sulla vecchia città, non fosse per la foschia ed un sole che la illumina non proprio dal lato giusto, ma si parte solitamente da qui perché il pomeriggio/sera viene dedicato all’U Bein’s Brigde, quello immancabile verso tale parte della giornata. La Sagaing Hill (vale il biglietto di Mingun ma non sempre lo chiedono) è un insieme di più colline ognuna svettante con una pagoda ben specifica, prendiamo una salita consigliati dal nostro autista e da lì ci perdiamo in passaggi da una cima all’altra, il fiume da scenario naturale con tutto l’oro che si rispecchia. Buddha a non finire, interessante l’Umin Thounzeh dove sono in mostra una cinquantina di state del Buddha offerte da varie popolazioni mondiali, ed ovviamente ognuna lo rappresenta a propria immagine e somiglianza, vabbè, i percorsi tra le colline son inframmezzati da incontri con monaci in assoluto relax e abitanti del luogo che si son costruiti una casa in tek su queste eleganti colline. Monaci in ogni dove, ma anche monache, che a differenza delle tonache arancio o rosse dei colleghi ne sfoggiano sempre una rosa ed il capo rasato. Da qui riattraversando l’Ayeyarwady ci dirigiamo all’antica città di Inwa, posta su di un’isola nel fiume, collegata con una lancia (800k) e visitabile o a piedi (ma il tempo a disposizione non è sufficiente) o su carro trainato da cavallo (circa 3.000k a testa, fino a 4 persone, ma non propriamente comodi). Il posto è spettacolare, alcune costruzioni ricordano lo stile Khmer risalenti però al 1.800, l’attrazione è il monastero Bagaya Kyaung (compreso nel biglietto cumulativo di Mandalay, portatevelo appresso!!) costruito in legno sopraelevato, ma colpiscono anche altre piccole pagode nel mezzo delle risaie, indubbiamente una vista fuori dal comune. Sempre sull’isola si trovano altre vestigia del passato, dalla torre di guardia (inclinata causa terremoto) di Nanmyin ed il monastero di Maha Aungmye Bonzan, e facendo attenzione una pagoda minore sarà sempre alla vista. Rientrati sulla terraferma l’autista non può esimersi dalla sosta pranzo, anche se son già le 2 oltrepassate (qui si fermano sempre a mezzogiorno spaccato per pranzare) ci aspettano al Rest. Sweet Ye Ye (2.700k) che avvisato in prima mattinata ci presenta il tipico pranzo birmano, con riso a volontà da accostare ad una lunga lista di curry, piattini di carne (di solito una portata principale a scelta), alcuni tipi di pesce e tantissime verdure, sulle prime invitante, alla lunga stancante, ma oggi è la prima volta e siamo carichi nell’affrontare questo pranzo allargato. Il pomeriggio è destinato all’avvicinamento ad Amarapura, dove si trova l’U Bein’s Bridge, il ponte più celebre della nazione, 1,2km di legno di tek che taglia il lago Taunghaman, spettacolarmente percorso dagli abitanti del luogo con ogni tipo di suppellettile, spettacolo nello spettacolo al tramonto, soprattutto standosene sul lato est. Prima facciamo una visita ad una fabbrica di tappeti, dove al lavoro ci sono prevalentemente bambine praticissime, ci dicono che per un tappeto serve circa un mese di lavoro, ma non ci informano sui prezzi di questi prodotti manuali, quindi non so fare una valutazione di quanto possa rendere a queste ragazze tale impiego. Raggiunta Amarapura e parcheggiata l’auto, prima visitiamo velocemente un monastero poi invece di attraversare il ponte percorriamo la costa del lago per trovarci il ponte in fronte (dato anche il periodo di secca) con una vista maggiormente caratteristica, ma giunti al ponte occorre rientrare sul lato ovest per salire ed attraversarlo, si può scendere in 2 posti una volta saliti ma entrambi dall’altra parte. Così, assieme ad un numero incredibile di persone lo attraversiamo interamente per scegliere il luogo preferito ad immortalare questo simbolo del Myanmar alla luce migliore, per noi appena passato il lago, dove una scala permette di scendere in corrispondenza di un locale dove bere e mangiare. Il tramonto si può ammirare anche su piccole imbarcazioni che devono essere noleggiate dal versante di Amarapura, ma direi che dove ci troviamo la vista sia più che spettacolare, così la pensano anche numerosi fotografi che stazionano con cavalletti professionali ed obiettivi più pesanti di una ruota di scorta. Il tramonto ce lo gustiamo interamente, quando è già buio e la temperatura abbassata notevolmente rientriamo in città con la luna piena che rischiara il cielo. Per cena facciamo tappa nella zona indiana di Mandalay in un rest. senza nome (1.700k) che non serve alcolici ma che permette di berli se si portano con sé.
Yangon, Shwedagon Paya
6° giorno
Colazione in GH, poi in taxi ancora con Chit Chit (3.000k) raggiungiamo la stazione dei bus in partenza per Monywa, in pratica nel mezzo della strada veniamo messi sul primo bus in partenza, zaini buttati sul fondo e biglietto da farsi con comodo mentre si va (2.000k, 3h). La compagnia è l’Aun Ga Bar, ma non pensate di prenotare o altro, parte quando c’è abbastanza gente, se non è tutto pieno si girà a lungo per la città e poi si esce passando da Sagaing, sfruttando il nuovo e grande ponte sull’Ayeyarwady. La strada non è male, larga dove possono starci almeno 2 mezzi, anche se a fianco ci sono sempre gli spazi per i carri trainati da animali, il Myanmar più tradizionale, arriviamo alla stazione dei bus di Monywa e siamo assaliti dai conducenti di mototaxi, trishaw e qualsiasi oggetto che si muova, parlare di assalto alla diligenza è poco, anche se come stranieri facciamo una certa impressione. Scegliamo un pick-up realizzato su base di motorino col quale ci facciamo portare allo Shwe Taung Tarm Hotel (13€ con colazione, acqua e wi-fi in pratica inutilizzabile causa lentezza, le strutture che ospitano gli stranieri in città sono pochissime) e trattando col procacciatore d’affari dell’autista (che non parla una parola d’inglese) definiamo l’escursione del pomeriggio e quella della mattina successiva, così lo spostamento verso l’hotel è compreso nel pacchetto. La spedizione pomeridiana parte appena preso possesso delle camere, destinazione Hpo Win Daung Caves (2$), un complesso di quasi 500 templi nelle grotte, anche se più che parlare di grotte bisognerebbe parlare di nicchie scavate nella roccia. Per arrivare senza dover traghettare l’autista compie un lunghissimo percorso, il risparmio sul traghetto è mortificato dalla benzina, ma ci permette di vedere una parte rurale del distretto di Sagaing poco battuto. Per girare il complesso delle grotte meglio farsi accompagnare da una delle tante bambine che attendono i pochi visitatori, a fronte della prima banconota da 1.000k ringraziava già come se avesse ricevuto una pensione a vita. Alcune grotte sono affrescate e decisamente interessanti, lo scenario più bello si trova proprio al termine della visita sul versante di fronte alla prima collina, oltrepassato alcuni venditori che si concedono lunghi momenti di relax fumando cannoni enormi. Rientrati in hotel ci consigliano di goderci il tramonto sul fiume Chindwin che lambisce la città nel lato ovest, spettacolo che ripaga e che richiama numerosi monaci, anche loro facenti parte di uno scenario classico del luogo. Di fronte all’hotel sorge il ristorante Hmu (2.000k) pieno di gente del luogo, serve solo cucina birmana e vegetariana, ritentiamo il piatto base confrontandoci con sapori forti ed intensi oppure totalmente neutri, i vari curry lasciano il segno, fortuna che al mercato serale ci si può riprendere con dolci locali decisamente buoni.
Raccolta del riso nei dintorni di Saddar Cave
7° giorno
Colazione nel ristorante attiguo all’hotel con le immancabili uova, il nostro autista ci sta già attendendo (10.000k per metà giornata), carichiamo gli zaini e partiamo verso la Thaboddhay Paya, indubbiamente una delle più belle pagode del Myanmar (3$). Sormontata da infinite guglie di ogni colore e piena all’inverosimile di statuine del Buddha quasi da sembrare il magazzino di una fabbrica di prodotti invenduti, conserva però un grande fascino, nonostante la realizzazione sia recente, dal lato opposto l’entrata si trova una piccola piscina da dove godersi una splendida immagine riflessa. Da qui si va al Bodhi Tataunh, un’altissima riproduzione del Buddha (127m) con alla base un’altrettanto enorme Buddha disteso. Si può entrare in entrambe le statue, quella distesa dice ben poco, quella eretta non è ancora completata, si salgono circa 14 piani ma non c’è vista, però all’interno si possono trovare le solite innumerevoli riproduzioni del Buddha ma anche pitture demoniache molto inquietanti, come spiedini di uomini sul fuoco! Passando da una statua all’altra non mancano bancarelle con tanti prodotti made in China ben evidenziato, come fosse un vanto. Sempre qui si trova anche la Aung Setkya Paya, attorniata da centinaia di piccoli stupa, da questa paya si gode la vista migliore del luogo. Luogo prescelto per le gite fuori porta di più gruppi etnici, dove per la prima volta scorgiamo i caratteristici pa-o, riconoscibili per gli abiti neri ed i coloratissimi copricapo, una specie di asciugamano attorcigliato. Poco lontano sorge anche una distesa di piccoli Buddha con ombrello, saranno circa 500, ai quali però nessuno presta attenzione. Ma è già tempo di ritornare alla stazione dei bus di Monywa dove alle 13 parte un bus locale (Kan Yan Minn, 1.500k 3:30h) per Shwebo che raggiungiamo per strade di campagna, l’asfalto copre lo spazio di un solo mezzo e quando ci s’incrocia uno deve fare spazio oppure entrambi cedono un pezzo di carreggiata, sperando di non trovare sulla terra un carro con buoi, cosa normale qui. Ci si ferma spessissimo per caricare persone e cose, ma anche per bere e mangiare, l’autonomia della popolazione senza foglie di betel fresche è ridottissima, sul bus si viene dotati di sacchetto di plastica non per rischi di vomito ma per espellere le foglie, una volta pieno i sacchetti vengono da tutti gettati dal finestrino colorando l’asfalto o la terra di rosso ovunque. Il bus fa tappa all’autostazione che rimane fuori dal centro, ma l’autista ci dice di non scendere perché continuando ci può lasciare in prossimità del Win G.H (doppia 30$ senza colazione ma con wi-fi, che funziona male e nei momenti in cui è presente l’energia elettrica) che assieme al terribile Swei Pyu è l’unico a poter ospitare stranieri. Stranieri che qui sono come un elefante in giro per le strade della Lapponia, chiunque ci guarda estasiato provando a buttar lì le pochissime parole d’inglese conosciute, a cena in un locale ad angolo sulla via principale (D Swei, ma non metterei la mano sul fuoco…1.200k) proviamo a interloquire con un indiano trapianto qui da parecchi anni. Mangiamo in modo nettamente diverso, una specie di crescentine che non sono le somoza indiane ma che non troveremo più in Myanmar, se non qualcosa di similare in un indiano gestito da mussulmani a sud, specialità ottime associate a salse di cui non c’è maniera di carpirne il nome ed insalate a base di pomodoro ed arachidi deliziose, queste sì rintracciabili con facilità ovunque. Non servono alcolici, ma sanno indicare dove poter comprare birra che è possibile bere al tavolo. Dire che siamo il divertimento serale di tutti i presenti ed i passanti è scontato, l’indiano che fa da cicerone per i locali si sente il protagonista, anche se al termine della cena ci chiede un contributo economico per la compagnia, ha decisamente investito male il suo tempo. Rientrando tentiamo di utilizzare internet presso Friends (400k x ora), ma la lentezza è snervante e dopo 30’ di nulla abbandoniamo il tentativo comprendendo che non è un problema dei wi-fi che sono offerti dagli hotel ma le linee in generale che sono lentissime.
Mingun, Hsibyume Paya
8° giorno
Niente uova a colazione, non essendoci la colazione in GH tentiamo in giro per la città recuperando un caffè da Lucky Seven (non è una catena internazionale…) con biscotti presi in una rivendita in zona poiché al caffè propongono solo cibo da pranzo, il tutto per 550k. Visitiamo la Shwe Daza Paya e la Shwe Kyet Taung Paya, mentre evitiamo di entrare e pagare il biglietto statale dell’Alaungpaya Palace, che di originale non ha più nulla. La caratteristica più interessante di Shwebo è la vita tradizione che la circonda, percepibile lungo ogni viuzza del centro ma che trova l’apoteosi nel mercato centrale, lo Zeigyo. Se reggete le visioni forti questo mercato è qualcosa di unico, come unici sono gli stranieri che lo attraversano, tutti rimangono stupiti nel vederci quanto noi nell’imbatterci in una donna che vende topi fritti, interiora di ogni tipo, pesci squartati di dimensioni rimarchevoli, ovviamente tutto quanto vien scartato finisce a terra ed è impossibile non calpestarlo. Ma passato il primo momento d’impasse, non si smetterebbe più di fotografare quanto di più anomalo ed impensabile sia in vendita, e a differenza degli spettacolari allestimenti d’insetti fritti incontrati in più punti di Bangkok o in angoli sperduti della Cambogia, qui fa molto meno messa in scena e più sopravvivenza. Attraversiamo tutta la cittadina compresa la Shwekyettho Paya che funge anche da monastero principe della città per raggiungere a nord la Maw Daw Myin Tha Paya, nulla di particolare ma ci permette di passare per angoli dimenticati del posto molto più interessanti della pagoda stessa, c’è anche il treno qui in città che corre lentissimo ma che è un piccolo richiamo per grandi e bambini, mentre l’antico fossato voluto dal re Alaungpaya è ora terreno di pesca degli abitanti, le tracce delle antiche mura quasi irrilevanti, ma un’escursione qui immerge oltremodo nella vita del Myanmar. Sosta da Eden Culinary Garden, che funge anche da forno con ottime paste (500k x 2 piccole ed ottime paste), quasi insperato visto il luogo. Il tempo a Shwebo, dove la temperatura diurna si alza rispetto a Mandalay, è terminato, raggiungiamo la stazione dei bus dove dopo qualche dubbio ci è indicato un local bus in partenza, la stazione è sprovvista di qualsiasi indicazione in lingua che non sia il birmano, e a parte i nomi delle città qualsiasi conversazione è impossibile. Il viaggio dura indicativamente 2:30 (2.000k), la strada è buona, ma il tempo dipende da chi sale e scende e dove, visto che i local bus fermano appena vedono una persona lungo la strada e dove ogni passeggero chiede di scendere. Arrivati alla stazione da dove siam partiti 2 giorni prima, rientriamo a piedi verso la zona del Royal GH ma questa volta lo troviamo esaurito e rimediamo al vicino Sabai Phyu Hotel (30$ una doppia con colazione che non sfrutteremo perché dobbiamo partire prima che la servano, bottiglia d’acqua, collegamento wi-fi teorico e concentrazione di zanzare mondiale) dove si può regolare lo spostamento via nave per Bagan, compreso il taxi della mattina prima dell’alba. Ceniamo in un ristorante cinese in zona, Crown (2.850k) che serve anche un caffè nero fortissimo, l’abitudine al coffee mix ci aveva disabituato a tale intensità. Ennesima conferma del fatto che Mandalay al calar del sole diventa meno popolata del Gobi, ed ultimo veloce giro della seconda città dello stato a forte impronta cinese.
Tramonto nel Moeyungyi Wetland
9° giorno
Alle 5:30 un taxi ci preleva in hotel (2.000k) per portarci alla Shwe Kennery, l’imbarcazione che fa servizio lungo l’Ayeyarway verso Nyaung U, porto d’approdo per Bagan, il posto più celebre del Myanmar. Il freddo è intenso, le brume avvolgono il fiume, nel prezzo del biglietto (40$, il tragitto inverso costa 35$) sono compresi una poltrona e la colazione, sfruttiamo subito la poltrona all’interno nella speranza che il clima migliori, cosa che avviene nel giro di brevissimo ed il passaggio a fianco di Sagaing regala immediatamente una vista superba, con le dorate pagode che si rispecchiano nell’acqua. Col sole che si prende per interno la giornata il lento navigare è un sentore di tempi andati, ci si sente un po’ come nei ricordi di quei viaggiatori dei secoli scorsi che tra una lettura ed una visione bucolica ricaricavano la mente e si rimettevano dai dolori che la cupa Europa spargeva in giro. Ci si ferma in porti fluviali ma anche nel nulla solo per salutare persone o scaricare masserizie nei campi, tutto scorre lento e ripetitivo, è un piacere rimirare il tutto dalle vecchie sedie di vimini che conoscono questi luoghi a memoria, si scambiano impressioni di viaggio con gente che si rivedrà in altri angoli del paese e che inevitabilmente si scambierà come amici di lungo corso per aver condiviso un qualcosa che non è crociera e viaggio ma immersione in un mondo antico. Al secondo piano si trova il bar per la colazione che si tramuta nel posto ristoro del mezzogiorno, servono pochi piatti ed i tempi di attesa sono direttamente proporzionati al viaggio, i prezzi invece molto più europei che sulla terra ferma. Il viaggio previsto di 8/9 ore dura 11, ci godiamo un tramonto maestoso sul fiume ed attracchiamo a Nyaung U quando la sera è già calata assieme alla temperatura. Non avendo una precisa idea di quanto disti il villaggio schiviamo i taxi ma procediamo con un Oscar, ovvero sopra ad un carro trainato da un cavallo, sosta obbligata all’ufficio del turismo per l’acquisto del biglietto di ingresso (15$ o 15€, il vantaggio di pagare senza cambiare ha un suo bel prezzo…se si arriva in aereo o bus si può evitare, anche se l’ascesa al tramonto della pagoda più celebre potrebbe non essere accessibile), il cavallante ci consiglia la GH in fronte alla quale staziona anche lui, posto non propriamente di prim’ordine ma visto l’orario ed il fatto che molti siano già completi ci fermiamo al Pyinsa Rupa (10$ con colazione e wi-fi, lentissimo e spesso fuori servizio causa mancanza corrente elettrica, acqua calda per la doccia ondivaga soprattutto nei momenti di maggior necessità, al rientro dalle escursioni), che come quasi tutti qui organizza escursioni, noleggia bici e motobici elettriche e funge da biglietteria. Cena tipica birmana da Man Sabai (2.300k), ma qui c’è l’imbarazzo della scelta, in Restaurant Row s’incontra di tutto, anche se la confusione può risultare più problematica che altrove. Sul discorso motobici elettrica mi soffermo un momento. A Bagan gli stranieri non possono noleggiare motorini, che sarebbero il mezzo ideale vista l’ampiezza dell’area e le temperature calde del giorno, così a fianco delle normali biciclette si sono inventati un mezzo che viene noleggiato come bici elettrica ma in realtà si tratta di un motorino elettrico (ci sono i pedali per l’omologazione come bici, ma si pedala praticamente a vuoto giusto per dare un poco di carica alla batteria) con un’autonomia di circa una giornata di spostamenti, molto più adatto a muoversi in terreni sabbiosi della bicicletta perché col gas ci si toglie agevolmente d’impiccio e ci si può spingere in autonomia a scoprire anche le pagode più lontane, soprattutto rientrare una volta tramontato il sole anche da lontano coi fanali ad illuminare i sentieri meno battuti, stessa cosa per gli spostamenti prima dell’alba, che sono i 2 momenti imperdibili del luogo.
Mercato di strada a Mawlamyne
10° giorno
Colazione in GH in un locale attiguo dove s’incontrano vari viaggiatori e ci si confronta con chi è già qui da qualche giorno, poi noleggiate le bici (1.500k al giorno) partiamo in direzione Old Bagan lungo la Bagan-Nyaung U Rd, la strada asfaltata più a nord del complesso. Le prime pagode, che a differenza di quelle viste già numerose ovunque sono in mattoni e non ricoperte di lamine d’oro piuttosto pacchiane, sorgono già a fianco della strada fuori dalle mappe principali, e già per arrivare alla Upali che dovrebbe essere la prima di un certo interesse impieghiamo tempo. Nella mattinata il posto d’onore va dedicato alla celebre Ananda, visitabile all’interno ma senza poter salire in cima, da qui si scorge già la cittadella di Old Bagan dove la popolazione è stata “facilitata” a lasciare il villaggio nel quale si entra attraversando le antiche mura e dove si trovano più pagode interessanti, la Shwegugyi non è certo la più bella ma si può salire sulla terrazza e godere un bel panorama anche se la luce del mezzogiorno non illumina a dovere la Ananda ed in parte lo splendido tempio Thatbyinnyu Pahto. Da qui tagliando verso nord passiamo a fianco dell’indianeggiante Mahabodhi per avvicinarci al fiume dove sul lato dello stupa Bupaya si trova una scalinata che porta alle barche dove volendo si può attraversare l’Ayeyarwady per cercare alcune pagode sull’altro versante o intraprendere una corta e lenta navigazione del fiume. Dopo una sosta in uno dei tanti ristori, ma potete approfittare del cibo di strada venduto in lungo e largo nello spiazzo attorno (provato con successo a prezzi irrisori), iniziamo a scendere per la parte restante di Old Bagan e Mynkaba. Tra una paya ed uno stupa sorge una costruzione sulle prime anonima ma scorgiamo alcuni avventurieri sul tetto, trovato uno stretto e nascosto passaggio anche noi raggiungiamo la terrazza del Ogkyn (il nome mi è stato indicato da alcune donne del posto, la traslitterazione può essere diversa) da cui la vista sulla piana di Bagan è favolosa. Le guide non riportano questa terrazza, ho dei dubbi che sia agibile visto che manca qualsiasi tipo d’indicazione, ma perderla è una colpa grave. La vista spazia all’infinito, fino alle celebri pagode della piana centrale, è anche una buona posizione per verificare dove siano esattamente alcune paya imperdibili ma raggiungibili lungo sentieri non sempre segnati (consiglio di utilizzare la mappa della precedente edizione della LP 6° italiana o 10° inglese molto più dettagliata della nuova) ma per chi ha un po’ di dimestichezza con l’orientamento nessun problema. Dopo aver vagato per sentieri che ci han portato a luoghi poco battuti dai gruppi arrivati in massa con torpedoni multipli, incontrato personaggi incredibili e gentilissimi nel farsi riprendere, approcciamo il tramonto alla più celebrata paya da dove godersi la calata del sole. Peccato che alla Shwesandaw Paya già 60’ prima ci sia una ressa assurda, per salire occorre mostrare il biglietto d’ingresso (unico posto dove mi è stato richiesto) e così pedalando come un gregario in tentativo di fuga al Giro d’Italia cerco di arrivare in tempo alla Buledi, missione compiuta ma visione non particolarmente esaltante. Appena cala il sole la temperatura precipita e tutto diventa buio, meglio trovarsi su strada asfaltata per rientrare in GH ed approfittare di una doccia calda prima che tutti siano arrivati, altrimenti l’acqua c’è ma solo fredda. Ci concediamo una cena in un locale lussuoso per il luogo, Chéri Land (5.400k) che presenta piatti diversi e appetitosi oltre ad un caffè simil espresso. Poichè la parte al chiuso è esaurita, e quella all’aperto tende al fresco c’è anche un corridoio attrezzato che permette di mitigare le 2 opportunità. Raggiungiamo Restaurant Row per farci un’idea della vita notturna del luogo e per recuperare info sia di questo luogo sia per future escursioni, quello che emerge da chi sta facendo il viaggio opposto al nostro è il freddo che ci aspetterà al lago Inle, ma già qui l’escursione termica è notevole. La visione di Old Bagan e delle più celebri pagode attigue si svolge tra sciami di visitatori, difficile qui poter godersi una vista solitaria, ma fortunatamente avremo tempo di rifarci, cambiando mezzo di trasporto e prendendo più confidenza coi sentieri, più si gira e più si concede fiducia a percorsi che al primo impatto mai si sceglierebbe di imboccare.
Pescatore al Lago Inle
11° giorno
Medesima colazione del giorno precedente, poi con una e-bike (5.000k, in realtà una moto elettrica) andiamo alla scoperta della piana centrale e meridionale prendendo la Nyaung-Kyaukpadaung Rd. fino all’incrocio dell’aeroporto dove s’imbocca la via a dx sul lato opposto, da lì dopo un km e lasciata sulla dx la Bagan Tower (pessima costruzione nemmeno in tema che propone un ristorante esclusivo con vista a 360° gradi) s’incontrano le prime pagode del Minnanthu Kan. Una cosa emerge subito chiara, qui non c’è l’invasione di Old Bagan, le pagode sono altrettanto belle ma più lontane e per andare da un complesso all’altro occorre percorrere sentieri non indicati, il tutto trasforma la visita in una splendida escursione, sarà anche per via di questa libertà d’operazione od anche perché la vista verso nord-ovest gode di un’illuminazione migliore ma il tutto si rivela più affascinante del giorno precedente. Nei pressi del Nandamannya Pahto (celebre per gli affreschi e per i decori esterni) sorge anche l’interessante Kyat Kan Kyaung, un antico monastero costruito interrato, si cammina sottoterra tra le piccole celle dei monaci e corridoi utilizzati per le preghiere. Da qui lungo sentieri imboccati più a sentore che con logica arriviamo alle celebri Sulamani (visitabile all’interno ma senza poter salire) e all’enorme Dhammayangyi Pahto, visitabile tra molteplici corridoi, chiamato anche tempio della sfortuna. Sempre procedendo col sole come riferimento raggiungiamo la più famosa Shwesandaw, entrando dal lato est non c’è nessuno e non c’è controllo biglietto. Continuiamo per Mynkaba dove sorge la Gubyaukgyi, nota per gli affreschi e per le lavorazioni a stucco su pareti e finestre. Da qui ritorniamo a vagare lungo i sentieri incontrando gente intenta a lavorare i campi che provano a darci fugaci indicazioni verso la lontana Dhammayazika Paya attualmente in restauro, da qui più un’avventura che un trasferimento verso la Pyathada Paya, luogo prescelto per goderci il celebre tramonto di Bagan. Nonostante di gente ne arrivi parecchia, e per fortuna il grosso dei torpedoni arriva quando il tramonto ha già salutato, lo spettacolo è molto bello, anche se alcuni colori incantevoli che avevo rimirato a lungo su foto non li scorgo, ma un passaggio qui per il tramonto non si può negare, nonostante la discesa richieda tempi lunghi poiché le scale sono piccole, strette, buie (sono all’interno, chi soffre di vertigini almeno non avrà problemi come invece ci possono essere alla Shwesandaw), intasate da chi se ne scende dopo lo spettacolo ammirato ed anche dai ritardatari che salgono nonostante non ci sia più possibilità di vedere nulla. Il buio è appunto il problema maggiore, i motorini elettrici non è che possano illuminare più di tanto un percorso sabbioso, non indicato e lungo svariati km, non perdersi d’animo è basilare. Andando seguendo i sentieri e avendo presente i punti cardinali giungiamo alla Anawrahta Rd che conduce a Nyaung U, temperatura precipitata (in moto serve felpa e giacca a vento, guanti raccomandati) e necessità di una doccia calda, sempre un terno al lotto al nostro GH. Cena al Rest. Pyinsa Rupa (1.800k), poi a dormire più presto del solito e qui il solito è sempre presto…perché in genere si sfrutta la luce solare al massimo, domattina avremo da ammirare l’alba sulla pagoda, occorre partire alle 5, e per essere pronti contrattiamo i motorini fin da subito.
Pranzo dei monaci presso il Kha Khat Wain Kyaung
12° giorno
Freddo intenso nel buio totale delle 5 di mattina di Nyaung U, giusto una piccola lampadina a fianco della GH dove prendiamo i mezzi (2.000k per escursione alba e ritorno) per dirigerci alla Shwensadaw Paya. Non c’è nessuna luce nemmeno lì e visto che mancano le indicazioni siamo in molti a girovagare a caso nei paraggi, trovato l’ingresso del largo sentiero sterrato arriviamo alla pagoda e scalzi saliamo i freddi scalini coperti dalla rugiada. Trovato un posto sulla terrazza più alta lo manteniamo a tutti i costi, coperti da pile, giacca a vento, guanti, cuffia, ma purtroppo coi piedi che imbarcano freddo, l’attesa è lunga perché alle prime luci dell’alba lo spettacolo non è così impressionante come si sperava, ma pian piano che il sole colora la piana le pagode s’immergono in una luce favolosa e vengono sorvolate da innumerevoli mongolfiere (il volo costa 450$ e va prenotato settimane in anticipo), si rimane ammaliati e senza parole di fronte a questo spettacolo creato dalla natura e dall’uomo per una simbiosi perfetta. Scendere? Scattare qualche foto e basta? Impossibile, tutti rimangono qui ammaliati fin quando il giorno s’impossessa della scena e la magia se ne va, ma rimarrà a vita negli occhi e nelle schede delle macchine fotografiche, qui messe alle corde con le batterie che piangono per scatti continui. Rientriamo e non sentiamo più il freddo, è già molto più caldo ma siamo talmente pieni di energie mentali che nulla ci può far male. Riconsegnate le moto tempo di colazione in GH e dopo in taxi collettivo (6.500k) andiamo a visitare il Monte Popa, uno sperone di roccia nel nulla sormontato dall’ennesima pagoda. La visione è straniante, questo vulcano nel mezzo di una piana colpisce parecchio, avvicinandoci però le solite bancarelle di prodotti tutti uguali e state del Buddha che paiono finite da pochi minuti ne svuotano il senso, così come consigliato da alcune guide invece di salire in vetta continuo sulla strada che per qualche centinaio di metri fa da parcheggio a mezzi di ogni tipo per trasformarsi in un sentiero che pare aggirare il Monte Popa, una deviazione sulla sx (che mi è consigliata da un personaggio che si aggira nei dintorni dotato di fucile in spalla che cerca di non mostrare) scende ripida per risalire ad un villaggio contraddistinto da numerosi nat, stupa ed abitazioni tutte al momento vuote, gli abitanti sono nei dintorni del monte a vendere a pellegrini e turisti qualsiasi cosa. Ma il bello di questo villaggio è la vista sul Monte Popa, la più caratteristica in assoluto, senza nessun confusione ed immersi in una natura rigogliosa. Rientriamo col taxi collettivo a Nyaung U per una sosta presso il Fuji Rest. che non presenta specialità giapponesi ma almeno varia il menù con ottime crepes e fresche bevande ai più svariati frutti del luogo. Ci concediamo un attimo di relax provando a ricollegarci con la realtà usufruendo di un internet caffè proprio di fronte alla GH, collegamento di una lentezza indescrivibile ed energia elettrica che si blocca, il proprietario non fa una piega, qui è la normalità, ci dice di ritentare dopo 45’, ma quanto accaduto prima si ripete, ne prendiamo atto senza prendercela più di tanto, siamo a Bagan ed abbiamo visto uno spettacolo da emozione assoluta. Cena al Nu War Rest (3.000k) tipica birmana, forse sarà l’ultima poiché i sapori stancano e come altre volte più curry son serviti freddi assieme ad un riso che necessita di un coltello affilato per essere separato, ci spiegano sia la maniera corretta per usufruire di queste portate ma ci convinciamo che non fa per noi, bellissima da vedere ma non da assaporare ma assolutamente da provare.
Bagan, alba dalla Shwensadaw Paya
13° giorno
Solita razione di uova per colazione in GH, poi proprio di fronte a questa con biglietti comprati dal gestore il giorno precedente prendiamo il bus della Shwe Man Thu (10.000k, 8h) per raggiungere il Lago Inle. La prima parte del trasferimento è in pianura, tutto tranquillo, a mezzogiorno in punto sosta per pranzo presso un grande punto ristoro dove la situazione più coreografica è regalata dalle tante venditrici di prodotti locali che girano in abiti tradizionali con in testa un enorme vassoio pieno di ogni cosa, quella che va di più tra i locali sono le uova di quaglia. Mentre dibattiamo sulla storia degli stranieri Virtus pallacanestro degli anni ’70, siamo interrotti a cavallo della stagione 74/75 da un personaggio che esibendo una sibillina esse come la nostra rimembra Tom McMillan, ed un casuale incontro del genere qui fa di certo impressione. Il bus copre la tratta Bagan-Taunggyi (capitale dello stato Shan), non siamo ancora in grado di sapere se ci scaricheranno lungo la statale a Shwenyaung da dove prendere un mezzo per il lago Inle oppure il bus devi fino a Nyaungshwe, di fatto l’accesso al lago, vedremo. Da ben prima di Thazi si sale in montagna, la strada è asfaltata ed in buone condizioni ma le curve continue, quindi non c’è un attimo di tregua fino al falsopiano di Kalaw, dopo meno di un’ora il bus svolta a dx e comprendiamo che ci porterà a destinazione, ben prima di arrivare si scorgono già fiume e laghetti sormontati da palafitte, il mitico lago Inle è a pochi km. Lo spiazzo a nord di Nyaungshwe funge da stazione dei bus e biglietteria per l’accesso alla zona (10$ o 10€, ma nessuno ci ha più chiesto la verifica del biglietto) che deve essere acquistato prima di scendere dal mezzo, così diventa impossibile evitarlo, prima che il sole scenda la temperatura pare buona e qualche allarme viene riposto, per il momento. Troviamo da sistemarci presso Nawng Kham Little-in (20$ camera doppia con colazione ed acqua calda, fondamentale in questo luogo), GH in espansione, luogo bello ma dalle pareti di tek non propriamente ideali per le notti fredde di qui, ma visti i lavori la cosa peggiore è la colazione all’aperto che in estate nel giardino sarà sicuramente un valore aggiunto ma al momento ci costringerà a coprirci all’inverosimile ed utilizzare la tazza piena di caffè caldo per scaldare le mani ghiacciate. Appena mettiamo piede fuori dalla GH siamo avvicinati da vari pescatori che offrono escursioni sul lago, non ci mettiamo molto a contrattare 2 di giorni di escursione con un barcaiolo che qualche parola d’inglese conosce, il primo giorno il giro è quello classico, ma per il secondo vogliamo uscire dai luoghi più comuni ed insistiamo perché pensi a qualcosa d’inusuale. Da qui si può passeggiare sul Nam Chang, il canale principale, ma il lago non è accessibile, si notano già le innumerevoli imbarcazioni che solcano il canale come se fosse la A1 Milano-Bologna, un traffico spaventoso di rientro dalle escursioni giornaliere. Le lance strette e lunghe, hanno 5 posti su sedie amovibili, il costo dell’escursione è a imbarcazione ma se si viaggia da soli qualche dollaro lo si può spuntare, ovviamente viaggiare in 5 ha grandissimi vantaggi economici. Notiamo che tutti quelli che rientrano son ben coperti, appena il sole scende la temperatura si abbassa, la sera fa freddo ma quello intenso giunge con la notte e la mattina, se di giorno la temperatura stazionano trai 25° e 28°, nella notte più fredda abbiamo raggiungo i 2°, escursione termica importante, soprattutto quando di mattina occorre solcare il lago sulla lancia. Per cena facciamo tappa al Paw Paw’s (3.200k), ottima qualità e servizio praticamente dedicato poiché trovandosi fuori dal centro c’è poca gente ed il titolare si ferma a chiacchierare con noi illustrando in un inglese quasi inventato un po’ di notizie sul lago e sulla distinzione tra la popolazione shan ed intha. Questi ultimi sono i tradizionali abitanti del lago, e quando si dice abitanti del lago s’intende nel lago, non solo a fianco, come avremo modo di verificare in seguito tutto avviene su palafitte e piccolissime strisce di terra, in questa zona le minoranze etniche sono numerose, una situazione che la giunta militare ha sfruttato a fondo per tenere in mano lo stato mettendo sovente le une contro le altre, quando questo non avviene da solo.
Finger food a Yangon, moda o esigenza...?
14° giorno
Fa freddo di notte, la leggera coperta in dote al letto a poco serve, ed anche quella recuperata in aereo non può risolvere del tutto il problema, ma non ho voglia di uscire dal letto per recuperare il sacco a pelo, così resisto fino all’ora della colazione che viene servita lentamente all’aperto. L’acqua bollente per il caffè arriva dopo poco e la utilizziamo subito per scaldarci mani e corpo, colazione in guanti, non bianchi ma di pile. Il barcaiolo ci recupera in GH, andiamo con lui all’attracco della sua lancia, caricate sedie, coperte, ombrelli, giubbotti di salvataggio e motore siamo pronti per partire, coperti all’inverosimile da pile, cuffie, guanti ma soprattutto coperte dei pescatori, mai così preziose. Percorriamo il canale in direzione sud verso il lago per circa 15’, incrociando i primi pescatori quando entriamo nel lago, caratteristici con le loro reti a cono ed il modo di remare stile serpente, usando un remo e spingendolo dalla posizione a poppa in piedi con un braccio ed una gamba, metodo usato per i piccoli spostamenti quando non si può accendere il motore onde spaventare il pescato. Immagine simbolo del Myanmar, vista e rivista non perde un briciolo del suo fascino mentre le nubi lasciano spazio al sole e la temperatura sale velocemente. Percorriamo la parte ovest del lago in direzione Nampan ed omonimo mercato. Qui al lago il mercato si svolge ogni giorno ciclicamente in 5 villaggi della parte nord ed oggi come altre centinaia di lance ci dirigiamo in questo angolo di paesino (Nampan vera e propria non è proprio nel luogo del mercato), trovato a fatica un approdo saltando di lancia in lancia raggiungiamo la terraferma e ci immergiamo in questo splendido luogo di compravendita, pesce, the, verdure, carni (ma non ho notato i topi fritti di Shwebo…) e quanto altro, per gli abitanti del lago e delle montagne dei paraggi questo è posto di scambi per eccellenza, si scorgono anche i primi pa-o nei loro caratteristici abiti. Lasciato il mercato dopo quasi 2h, facciamo tappa a In Phaw Khone, villaggio su palafitte celebre per la produzione di tessuti ricavati dal filamento contenuto all’interno del bambù. Qui è possibile assistere al processo completo, dal taglio del bambù al prodotto finito, una guida illustra ogni passaggio (una giovane del posto che parla perfettamente inglese) fino allo spaccio finale, la cosa più interessante è la spiegazione dei colori e dei disegni di ogni longyi (il tipico capo di abbigliamento locale, sia per uomini che per donne, una specie di grande tovaglia che si arrotola in cintura) per ogni etnia del lago ma anche del Myanmar. L’esposizione di vendita raggruppa un’infinità di prodotti effettivamente molto belli, ma i prezzi sono spropositati, visto il tempo di realizzazione sarebbe anche giusto, ma spendere 75$ per un camicia da queste parti sembra fuori dal reale. Risaliamo sulla lancia per due veloci soste, la prima a Se Khone presso una fucina dove si apprezza la sincronia nella battitura del ferro caldo al fine di realizzare coltelli preziosi, come molto belli e costosi sono i gong, la seconda alla fabbrica di sigari di Nampan, dove si possono testare vari tipi di prodotti locali senza venir assillati dal comprare a tutti i costi. Da qui prendendo il canale in direzione Inthein facciamo tappa a Ywama presso il più importante sito religioso del lago, Phaung Daw OO Paya, ed in seguito ad una fabbrica di ombrelli, la struttura di questi interamente realizzata in bambù sotto i nostri occhi in maniera veramente inventiva, la parte in tessuto con decorazioni splendide, ombrelli che si possono trovare nei grandi mercati di Yangon, fuori da questa fabbrica come richiamo turistico sostano due donne giraffa di età diverse, che tristemente mettono in mostra gli anelli che decorano collo e gambe. Ci si può fare un’idea del peso di tutta questa mercanzia, ma pare più uno zoo che altro, queste donne giraffa dell’etnia paduang sono originarie della stato Kayah, luogo non di facile accesso perché sul confine con la Thailandia e da sempre abitato da ribelli che reclamano l’indipendenza di questo minuto territorio. Sosta pranzo in ritardo per gli usi e costumi del posto, più per soddisfare l’esigenza del barcaiolo che la nostra nel grande e bello Golden Moon (2.500k) poi risalendo il fiume partiamo in direzione Inthein, il villaggio più celebre e vivo sul lago. Il percorso per arrivare è fantastico, dal lago pian piano ci si immerge in un passaggio nel folto della foresta per accostarsi sulle anse del fiume alle prime costruzioni in legno del villaggio. E’ pomeriggio ed il locale mercato è già terminato, ma rimangono ancora molti turisti a girovagare verso la sommità della collina dominata dagli infiniti stupa della Shwe Inn Thein Paya (500k per fotografare), la parte in basso vere e proprie emozionanti rovine (Nyaung Ohak), più si sale più sono nuovi ed anche in ristrutturazione o costruzione. Ma la vista migliore la si conquista salendo ancora su di una collinetta a sx della paya, dove sorge un piccolo chiosco che regala in un unico panorama la vista sulla paya, sugli stupa ed il lago in lontananza attorniato dalle montagne e dal verde intenso di alcuni punti sul blu, i celebri orti galleggianti. Invece di scendere lungo la scalinata coperta lo facciamo aggirandoci tra gli stupa e trovando un passaggio su di un sentiero sulla dx della scalinata, arriviamo alla lancia ed è già tempo di rientrare perché la distanza non è poca, passeremo lungo i canali che costeggiano gli orti galleggianti (che visiteremo con calma l’indomani) per prendercela comoda con le viste dei pescatori al tramonto. Ed in effetti il nostro barcaiolo non ha sbagliato i tempi, i colori del tramonto coi pescatori al lavoro sono immagine sontuose, non ci mette fretta e rimaniamo fino a quando il sole inizia a nascondersi dietro alle montagne, verificando che oltre ai pescatori ci sono molti barcaioli che recuperano alghe, lance stracolme di alghe che navigano piano lo spettacolare lago, lago che da vita ad una moltitudine di persone non nei suoi dintorni ma proprio nella sua superficie, visti anche i numerosi villaggi su palafitte completi di ogni tipologia di costruzione, dalla piccola paya al distributore di benzina. Rientrando la temperatura si abbassa velocemente e dobbiamo rimettere mano a coperte e pile, ma poco male. L’escursione ci costa 20.000k, divisibili fino a 5 persone, per chi viaggia solo di solito scontano 2.000/3.000k. Nell’attesa dell’ora di cena sosta per una navigazione questa volta in internet presso Comet Travel (1.000k 1h, molto più celere che in precedenza) per poi raggiungere il Rest. 68 beer&rest (2.100k) che a fronte della bella griglia in vetrina la sfrutta solamente per spiedini di interiora di maiale, lasciamo perdere. Il freddo si impadronisce della vita locale e rimediamo velocemente nella camera della GH, non prima di aver recuperato dalla zaino il sacco a pelo, fondamentale per una nottata di sereno riposo.
Trasporti fluviali a Hpa-an
15° giorno
La notte è fredda ma il sacco a pelo fa da scudo, la colazione lenta ed all’aperto ci rimette subito in piedi pronti a preparare nuovamente la lancia del barcaiolo per un’escursione praticamente a sorpresa in zone più a sud del giorno precedente e meno battute (25.000k). Le nuvole avvolgono il lago, la navigazione si fa dura perché per oltre un ora il freddo è particolarmente intenso, ci lasciamo alle spalle i luoghi visti il giorno prima e passiamo alcuni villaggi su palafitta tra Helon e Hsisone ed in 10’ il cielo si sgombra ed il sole torna a farla da padrone, poco prima di intravvedere Thaung Tho Kyaung, un villaggio dove par di stare ancora nel ‘800. Attraccata la lancia scendiamo a terra dove non s’incontrano mezzi a motore ma solo carri e buoi, pochi e rari stranieri e tanti abitanti del luogo vestiti dei loro caratteristici abiti. Qui gli Intha ed i Pa-o la fanno veramente da padroni, il mercato tribale è uno spettacolo fantastico e risalire la collina per raggiungere il complesso degli stupa è un piacere assoluto, come scendere lungo il sentiero sulla dx della scalinata da condividere coi carri degli abitanti che se ne tornano a casa carichi all’inverosimile. Ci attardiamo al mercato dove ogni gruppo fa suo qualsiasi tipo di suppellettile, genti che s’inventano ogni modo di caricarsi a più non posso per ripartire con le lance a volte prese in prestito per l’occasione. Dopo una lunga ed attenta osservazione ripartiamo ancora verso sud per raggiungere tra passaggi nascosti il villaggio di Kyauk Taung, la temperatura permette già di riporre negli zaini pile e quanto altro era stato di difesa qualche ora prima. Calma piatta, la zona adibita a mercato è completamente sgombra, oggi non è il giorno giusto (anche in questa zona a sud c’è la rotazione del mercato ogni 5 giorni) ma dopo essersi informato il barcaiolo ci trova una famiglia intenta a produrre pezzi di ceramica, la specialità di questo piccolo luogo che però oggi non trova nessun visitatore. La proprietaria in pochi attimi realizza portacenere e anfore, tenta di trasformare anche noi in piccoli operatori del settore ma i risultati non sono i medesimi, vende alcune realizzazioni fatte in precedenza a prezzi prossimi allo zero, lasciamo anche un disegno fatto da uno di noi maestro del fumetto come saluto, saluti che grazie a questo interscambio si prolungano, visitiamo velocemente il villaggio dove escono tutti da casa a guardarci e ripartiamo in mezzo a piccoli canali che parrebbero impraticabili ma che per il nostro barcaiolo sono comuni. Tra i fitti canneti occorre evitare qualche colpo di troppo ma l’esperienza è esaltante, il barcaiolo ci chiede se vogliamo far visita alla sua famiglia a Maing Pyo, accettiamo entusiasti e così attracchiamo presso una grande casa su palafitta. La famiglia non sa di questo “esotico” arrivo, sono tutti intenti a guardare alla televisione un film che pare uscire dagli anni ’30, ci fanno comunque accomodare nel mezzo di una grande sala al primo piano dell’abitazione, dove si svolge la vita comune. La parte superiore è adibita alla parte riposo, non ci viene chiesto di salire e non ci prendiamo la libertà di farlo. Il barcaiolo in realtà non abita qui ma per lavoro rimane a Nyaungshwe, tutti gli altri invece vivono qui, dalla nonna che pare imbalsamata ai genitori, per finire coi 2 fratelli ed una sorella. Nonostante non sia il più giovane è l’unico a non aver figli ma anche l’unico a vivere in città e guadagnare in un giorno grazie alla barca quello che per gli altri arriva in oltre 15 giorni. Ci offrono frutta e dolci e l’immancabile the verde (in Myanmar non manca mai, ogni ristorante, GH o casa lo mette sempre a disposizione gratuitamente), nessuno parla una parola d’inglese quindi dopo una veloce presentazione e un risicato scambio d’indicazione con traduzione traballante ripartiamo tra l’entusiasmo dei vicini, probabilmente siamo stati tra i primi ad aver messo piede a casa di abitanti del luogo che non siano commercianti. Fatto rifornimento ad un casotto sempre galleggiante, ci inoltriamo per il villaggio, il barcaiolo è contento di farsi vedere qui con stranieri, per lui è un segno d’importanza e di avercela fatta ad uscire dall’economia difficile del posto grazie al sacrificio dell’aver comprato una lancia a motore mentre prima faceva il pescatore con tanta fatica, molto più lavoro ed incassi minimi. Di nuovo in netto ritardo per gli orari del posto facciamo una sosta allo Shwe Yaung Inn (3.000k), ristorante sul canale principale per poi entrare a visitare gli orti galleggianti. E’ incredibile come abbiano sfruttato al meglio pochi centimetri di terra per piantare qualsiasi tipo di ortaggi, pomodori su tutti da cui deriva l’ottima insalata arricchita da arachidi e una salsina locale, la cura di questi giardini è maniacale, il tutto realizzato dovendo sempre muoversi su barche in spazi ridotti ai minimi termini, nel mezzo della vasta zona degli orti sorge un monastero particolare, Hga Hpe Kyaung, conosciuto da tutti come il monastero del gatto che salta. I monaci locali in questo incontaminato luogo di meditazione hanno sicuramente tanto tempo a disposizione e l’hanno utilizzato per insegnare ai gatti a saltare all’interno di cerchi, la particolarità è divenuta talmente nota che ha dato il nome al monastero, la vista arrivando dalla parte est è sicuramente più caratteristica e l’attracco meno battuto. Piccoli stupa o minute dorate pagode sorgono anche nel mezzo della zona degli orti, da qui riprendiamo il viaggio di rientro passando ancora tra i pescatori sempre spettacolari anche se non più una novità per arrivare a Nyaungshwe al tramonto notando come gli attracchi delle lance fungano anche da docce pubbliche per i barcaioli. Congedato il nostro skipper giriamo il paese per organizzare il giorno seguente dove lasceremo il magico mondo del lago Inle, un microcosmo assolutamente imperdibile. Cena al celebre Linn Htet (2.300k), dove ci ritroviamo col virtussino incontrato qualche giorno prima, il ristorante è tipico birmano ma oltre al solito piatto dagli svariati curry offre anche tante valide alternative ed è strapieno di gente, per la prima volta troviamo gruppi d’italiani, fino ad ora la presenza straniera coincideva quasi unicamente con francesi.
Lago Inle, le docce dei barcaioli
16° giorno
Affrontata nuovamente la notte all’interno del fido sacco a pelo, colazione al freddo che conferma il solito sbalzo termico del luogo, carichiamo gli zaini su di un’auto che ci farà da taxi per la giornata, destinazione Kakku, il luogo simbolo dello stato Shan e vera e propria piccola patria della popolazione pa-o. La strada sale irta verso Taunggyi, capoluogo dello stato, oggi straripante di gente perché giorno di mercato. Facciamo tappa alla stazione dei bus che si trova prima del centro non indicata e visibile giusto perché scassati autobus stazionano in zona, ma dopo svariate richieste impariamo che i biglietti non sono venduti qui ma in centro, dove ci dirigiamo lentamente perché il mercato è ovunque. Dispersivo ma non meno interessante, purtroppo abbiamo altre priorità, la prima andare all’ufficio delegato all’ingresso del sito di Kakku in pieno centro, qui occorre comprare il biglietto (3$) e pagare la guida obbligatoria (5$ per tutte le persone del gruppo). Girando e chiedendo ovunque troviamo anche un gruppetto d’indigeni che vendono i passaggi dei bus, in pratica un piccolo chiosco nel mezzo di un incrocio che grazie al mercato non viene sommerso dalle auto, ma impossibili da distinguere se non vengono espressamente indicati. Il biglietto è tutto in birmano, riusciamo a farci scrivere i riferimenti anche traslitterati, giusto per sicurezza. L’auto a nostra disposizione ha però un guasto alla portiera dell’autista, così il driver chiama un rinforzo, 20’ e siamo pronti a partire su di una nuova e fiammante Toyota senza dover aggiungere soldi, dispiace per il precedente autista simpatico e a conoscenza dell’inglese. La guida che ci farà da navigatrice a Kakku è una minuta studentessa ventunenne della locale università, iscritta a letteratura inglese che parla perfettamente ma probabilmente ferma al bardo di Stratford Upon Avon, poco male poiché conosce ogni aspetto della sua etnia pa-o (di cui veste orgogliosa gli abiti tanto caratteristici) e dei luoghi che attraversiamo. Il trasferimento da Nyaungshwe a Kakku dura circa 2:30, da Taunggyi oltre un’ora data la strada non proprio ben tenuta, così abbiamo tempo per imparare che le risaie in questo tempo non sono inattive ma vengono utilizzate per la coltivazione dell’aglio presente in quantità industriali ai mercati, che i frutteti a quota 2.000m sono inaspettatamente produttivi anche per le arance, che siamo nello stato Shan ma le etnie sono molteplici e non sempre pacifiche tra di loro, insomma una piccola balcanizzazione che tanto ha fatto comodo alla giunta militare che presente nelle menti di tutti non si scorge mai, inesistenti i controlli se non i dazi da pagare ad ogni ingresso ed uscita dalle cittadine, esentate le bici e le moto. La vista di Kakku impressiona al primo colpo, 2.487 stupa in uno spazio che sarà 150x200m nel mezzo del verde più intenso. Se ne scorgono di molteplici stili, a dimostrazione che furono eretti in più periodi anche se la solita leggenda locale vuole la realizzazione circa nel 300 a.c., direi che di leggenda e nulla più si tratti. Bello girare senza una meta precisa tra i piccoli sentieri che dividono questi stupa, ma ovviamente il pezzo forte è lo specchio d’acqua che si trova a dx dell’entrata dove questi si specchiano regalando immagine mozzafiato. Kakku è tutta qui, volendo nello spiazzo antistante sorgono alberi dal fusto gigantesco predisposto per picnic, ma l’ammasso di stupa volge l’attenzione sempre e solo in quella direzione. Sosta di relax al rest. Hlaing Koon difronte giusto per testare la squisita tempura di verdure (1.500k), poi rientriamo a Taunggyi con la piccola guida a raccontarci aneddoti del luogo ed interrompere queste storie con un’accademica introduzione alle costruzioni dei villaggi, tra scuole, ospedali e siti di stato, un cambio di registro da ufficiale ed ufficioso che colpisce. Ci portano di corsa alla sgarruppata stazione dei bus, nessuno sa nulla ma un local bus è in partenza, senza nemmeno controllare il biglietto ci fanno salire (3.000k, 2:15), eravamo preoccupati del ritardo di 5’ (non sapevamo se ce ne fossero in partenza più tardi) ma il bus è vuoto. Pian piano si riempie e solo a quel punto si parte, il local bus ha vaghi orari, raccoglie chiunque faccia un cenno e fa scendere a piacere, per tutto il tragitto i buttafuori/bigliettai viaggiano mezzi fuori ad urlare destinazioni raggiungibili, carica gente anche quando questa non ci sta ma è il bello del posto. Raggiungiamo Kalaw quando il sole è già nascosto dietro alle montagne, il local bus ci scarica in pieno centro e non sulla strada principale dove fanno sosta i bus a lunga percorrenza, qui troviamo subito alloggio al Parami Motel (25$ camera doppia con colazione, bottiglia di acqua, doccia calda quando il boiler riesce a partire e splendida vista notturna sullo stupa Aung Chan Tha Zedi dal terrazzo sul tetto ma niente w-fi). Anche qui di sera la temperatura precipita, ce ne accorgiamo mentre giriamo il villaggio per organizzare i giorni a seguire, finendo per cenare allo scarso Rest. Emerald (3.700k), scelto perché si scorgevano più avventori che altrove, ma a ragione erano più attratti dal grande televisore che come sempre rimanda immagini di calcio inglese che dal cibo.
Decorazioni col Thanaka, addetta alla biglietteria fluviale di Mandalay
17° giorno
Colazione in hotel al chiuso, scongiuriamo il freddo che durante la notte non si è paventato anche grazie a 2 grossi panni in dotazione, oggi giornata di escursione a piedi nei dintorni, Kalaw è la capitale del trekking del Myanmar, possibilità di ogni tipo da un giorno ad una settimana, la più battuta è quella che in 3 giorni porta al lago Inle. Noi optiamo per esplorare le montagne a nord, passando per villaggi di etnie distinte. La guida, un anziano con cui ci siamo accordati da Sam’s (10.000k + 2.000k per il pranzo, durata complessiva 7h) pare conoscere tutti, avanza lentamente salutando dal primo all’ultimo che incontra, sarà una gita a passo lentissimo, si prevede immediatamente, aggiriamo Kalaw passando da ovest, il sentiero stringendosi sale gradatamente senza nessuna indicazione, comprendiamo come la guida sia fondamentale per quest’aspetto più che per illustrarci i luoghi. Scendiamo una stretta valle interamente coperta da alberi di arance, la popolazione è tutta intenta a raccoglierle trasportando agganciate alla testa grandi gerle in modo da muoversi là dove i mezzi non arrivano nel mezzo dei filari a strapiombo delle montagne. Un arcaico camion fa la spola da qui nel mezzo del nulla al villaggio paduang di Pain Ne Pin sulla vetta di una montagna. Questa popolazione dedita all’agricoltura coltiva piante ma non campi, una differenza con quella che vedremo in seguito, le donne del posto separano le foglie di the in ogni dove oppure puliscono agli, l’intero paese è una manifattura all’aperto per queste operazioni, qui alle 11 la guida vuole già far tappa per pranzo presso una grande abitazione che funge da ristorante. Oggi però lo stretto spazio è utilizzato da una famiglia olandese allargata (specie di bed & breakfast organizzabile da Kalaw), così ripieghiamo su quanto la guida si era portata al seguito, specialità indiane vista anche la sua origine. Continuiamo l’escursione aggirando la montagna per giungere ai campi coltivati nei dintorni di Myin Ka, un villaggio danu dove molte cose cambiano. Intanto questa etnia lavora a fondo i campi usando i bufali come trattori, i colori degli abiti virano sullo scuro ed il paese è praticamente disabitato, se i primi ne stanno approfittando per invogliare gli stranieri verso un’esperienza bucolica nei loro luoghi, in questo secondo villaggio si fatica ancora fuori di casa, gli spazi comuni attorno all’antico monastero di legno del XVI secolo sono terra di conquista dei bambini che giocano ad una specie di nascondino liberi dagli occhi degli adulti. Da qui prendendo il sentiero a dx del monastero, la strada s’inerpica al punto più alto dell’escursione da dove si possono vedere montagne verso nord-est con in vetta ad ognuna la più classica delle pagode dorate, immancabili. Scendiamo per un lungo ma tranquillo sentiero che rientra a Kalaw dal lato opposto rispetto alla partenza, dovendo più volte attendere la guida che pare stremata, nonostante lungo il cammino abbia chiesto uno strappo ad un trattore di passaggio. Una volta in paese, dopo aver assistito alle sfide degli anziani alla dama cinese su “campi” predisposti attorno al mercato centrale, facciamo tappa al Cyber bar (1.000k x h) con una connessione a internet lenta come al solito. Per cena vorremmo tentare un ristorante nepalese che attrae la maggioranza dei viandanti, ma è tutto esaurito per l’arrivo di un gruppo organizzato, così spostandoci di poco ci rifugiamo al Min Thi Ha (1.5000k, dove zuppa, frutta e the sono gentilmente offerti), qualità non eccelsa ed al solito quasi nessuno mangia ma molti se ne stanno in visione delle partite. Il freddo si prende possesso del luogo, dove le luci si spengono molto presto, unici segnali di vita sulla via principale dove fanno sosta i bus notturni per nord e sud del paese.
Navigando sull'Ayeyarwady
18° giorno
Colazione in hotel dove lasciamo gli zaini e poi con le indicazioni impartite dalla proprietaria ci dirigiamo verso Pindaya. Saliamo su di un local bus destinazione Aungban che parte in centro all’angolo della Paya (500k, 20’), quando scendiamo come prevedibile siamo assaliti da taxisisti che ci chiedono una fortuna (30/40.000k) per portarci alle grotte di Pindaya. L’attesa ed il disinteresse nei loro confronti ci permette di entrare in empatia con gli abitanti del posto che ci consigliano di rivolgerci ai conduttori di motocarrozzette, dopo lunga discussione uno accetta i nostri 15.000k e partiamo, ben coperti perché la temperatura non è ancora salita e viaggiamo praticamente all’aperto. Lo spostamento dura 90’ e non è visivamente interessante, prima di giungere al paese vero e proprio si dovrebbe pagare un biglietto di accesso ma il nostro driver se ne infischia e sfreccia imperterrito di fronte all’entrata. Il grande lago verde che sottostà alla montagna fa da sfondo ad un paese che vive dell’attrazione turistica rappresentata dalle grotte stracolme di statue del Buddha, lago in cui si fa ogni cosa, ci si lava e si lavano stoviglie e indumenti, fonte di vita primaria. La motocarrozzetta raggiunge l’ingresso pedonale, si potrebbe salire lungo scalinate coperte in mezzo ad infinite bancarelle, ma non c’è data possibilità di scelta e così arriviamo alla meta velocemente, anche perché in questo modo il conducente dovrà attenderci per un tempo minore. L’ingresso costa 3.000k, ai quali vanno aggiunti 300k per foto o riprese, di fatto obbligatori. Visita interessante più per lo scenario delle grotte stesse con alcune belle stalagmiti che per le solite statue che paiono sempre appena terminate, ma la montagna regala anche possibilità di ulteriori escursioni verso minuscoli villaggi nella zona superiore dove gli abitanti si recano ancora a prendere acqua da un lago trasparente con ogni possibile recipiente, tutti agganciati ad un lungo bastone che funge da “camion” manuale. Laggiù in basso il lago fa bella mostra di se, attorno al quale pullula la vita del posto dove chiediamo di far tappa ad uno dei tanti ristoranti per assaporare il clima locale, fatto di tanti giovani che si spostano ancora in bicicletta a differenza dei luoghi visti in precedenza dove lo scooter la fa da padrone, tra gruppi di pagode che sorgono come funghi ovunque si guardi. Riprendiamo la via del ritorno caricando lungo la strada alcune persone che si stupiscono nel condividere questo mezzo assieme a stranieri, la conversazione latita perché a parte le più banali parole imparate in birmano altro da scambiarci non abbiamo poiché loro solo quello parlano. Arrivati ad Aungban e chiesto lumi relativamente ai bus per Kalaw, taxisti e motociclisti ci dicono che non ce ne sono più, ovviamente sappiamo della falsità perché questa tratta l’avevamo già percorsa 2 giorni addietro proprio in bus, ma il solito personaggio locale fa di più, ferma il primo camion di passaggio e ci fa salire sul cassone dove già stazionano una decina di persone, il cassone è particolarmente comodo perché ricoperto da tavole di tek e ampie casse che fanno da schienale, così il trasferimento come se fossimo già indigeni diventa un bel momento di condivisione di tempo e spazio, per la stessa cifra pagata all’andata, senza nemmeno discutere più di tanto (500k). A Kalaw è giorno di mercato, così il tempo che abbiamo da far passare per attendere il bus della sera lo impieghiamo qui, in mezzo a colori ed odori intensi, macellai che squartano animali davanti ai nostri occhi e pescivendoli che rifilano enormi pesci di acqua dolce con interiora che diventano preda di cani e gatti. Cena da Sam’s (lo stesso che fa da punto di riferimento per le guide) per un delizioso pasto indiano (3.300k), poi recuperiamo gli zaini in hotel dove gentilmente ci permettono di utilizzare i bagni e di attendere al caldo l’arrivo del bus notturno destinazione Yangon. Il biglietto del bus lo avevamo comprato in anticipo (Thit Sar 00, 22.000k, 9h), scegliendo quello più comodo, larghe poltrone reclinabili, fornite di coperte, acqua, dolci per colazione, insomma un viaggio extralusso per far si che la notte non ci pesi, peccato solo che la prima parte si svolga in montagna tra un continuo di curve e dormire non sia così semplice. I bus notturni che passano da Kalaw sono un numero impressionante, da Taunggyi di sera partono sia in direzione sud sia nord, sono gli stessi che ci hanno venduto i biglietti dall’agenzia lungo la via principale ad indicare su quale salire, il tutto al volo perché la sosta è velocissima.
Abitante dell'isola Bilu Kyun
19° giorno
Scesi dalle montagne la strada spiana e si raddrizza così si riesce a dormire o meglio sonnecchiare, però prima dell’alba siamo già all’ingresso di Yangon, non più capitale del Myanmar ma la città più grande e riferimento per ogni cosa. Prima di entrare alla stazione dei bus di Aung Mingala a nordest, c’è una lunga attesa, percorse le poche centinaia di metri mancanti scendiamo nel mezzo di una scassatissima, sporca, incasinata ed inefficiente stazione dei bus, per essere la più grande del paese colpisce ed alla grande in negativo. Non c’è un’indicazione traslitterata, non c’è nessuno cui chiedere informazioni, gli unici sono i personaggi che fanno da procacciatori di passaggi per il centro, alla lunga troviamo dove comprare un biglietto per il giorno successivo, poi fermiamo un taxista che ci porta verso un hotel scelto sulla guida in pieno centro (6.000k, 45’). Optiamo per il May Fair Inn (15$ senza colazione, docce calde ed una bottiglia di acqua a testa, wi-fi gratuito) dove lasciamo gli zaini per partire subito all’esplorazione della città. Poiché qui ritorneremo per il volo d’uscita, decidiamo di visitare in giornata la parte monumentale lasciando quella dei mercati al rientro per non portare al seguito gli immancabili acquisti, così dalla nostra centralissima posizione partiamo dai grandi palazzi attorno al Mahabandoola Garden, sede dei poteri forti dello stato, anche se i ministeri son stati spostati nella nuova capitale a Nay Pyi Daw nel 2005. Di questa città sorta nel nulla in mezzo alla foresta non si sa niente, nessuno dei tanti viaggiatori incontrati ci ha messo piede, difficile da raggiungere con non si sa bene cosa vedere senza niente di tradizionale e caratteristico, non si sprecano giorni dei già tirati 28 concessi nel paese così da rimanere per tutti un mistero, forse quello che la giunta militare si augurava una volta costruita ed aperto le frontiere. Il Mahabandoola Garden fa da sfondo ad uno dei luoghi simbolo di tutta Yangon, che divide il proprio stradario a partire da qui, la Sule Paya. Costruita nel mezzo di una rotonda (2$, ma diverranno 3$ da inizio 2014) è meta di continue peregrinazioni degli abitanti stante anche la facilità nel raggiungerla, fa un po’ senso visitare questo luogo schivando le botteghe al suo interno come i nuovi e fiammeggianti bancomat in concorrenza coi tanti negozi cambiavalute e banche. Da qui prendiamo a nord per raggiungere la vetta della Sakura Tower dove all’interno dello Sky bar si gode il miglior panorama della città, ma fanno da contraltare prezzi in stile occidentale, un caffè 3$. Da qui ci immergiamo a piedi lungo le vie della città per scoprirne i posti più caratteristici come la stazione ferroviaria che pare ancora essere rimasta al tempo degli inglesi, lasciato sulla dx lo stadio nazionale ovviamente intitolato ad Aung San padre di Aung San Suu Kyi ed icona nazionale dove l’enorme scritta Myanmar non riporta il nome della nazione ma la sponsorizzazione della birra, arriviamo al parco attorno al lago Kandawgyi (2.000k solo x stranieri) attraversato da grandi passerelle perché i bordi interni sono ora di proprietà degli alberghi che lì si affacciano. Da qui ci inoltriamo nella zona delle ambasciate dove sorge il Bogyoke Aung San Museum (300k), la favolosa casa dove l’autoproclamato generale e la famiglia vissero. Non si può fotografare all’interno della casa ma nel cortile sì, ricostruita tra foto, mobili e memorabilia la storia del travagliato secolo recente del Mynamar dove la figura del generale emerge tra qualche contraddizione di troppo. Ma qui nel descriverne il percorso attuato per portare il paese all’indipendenza servirebbe uno spazio troppo esteso viste anche le innumerevoli giravolte politiche attuate nel corso della seconda guerra mondiale. Attraversando la città verso ovest notiamo come sia facile imbatterci nel cosiddetto ciba di strada, è semplice, pratico e veloce mangiare decisamente bene con 1.000k, con 500k si può approfittare di frutta di ogni tipo. La prossima metà è la più nota dell’intero paese, la Shwedagon Paya, la pagoda dorata che fa da simbolo al Myanmar. Sorge su di un’area particolarmente estesa, arrivando da est si percorre un largo viale dove altre pagode diventano nulla in confronto, sempre dietro alle bancarelle che vendono cibo e souvenir, molto meglio scegliere l’ingresso da ovest dove poter attraversare un bellissimo giardino, anche se quello maggiormente scenografico è quello a sud. All’ingresso assieme al biglietto (8.500k) viene fornita la mappa della pagoda, mentre tutto intorno alla base ci sono distributori gratuiti di acqua, la sacralità del luogo è però ridotta ai minimi termini da ogni tipologia di attività commerciale, tra uno stupa e una campana compaiono negozietti o bancomat (ma non dovevano mancare in Myanmar?) così la grande attrattiva si svuota di fascino, fascino che però recupera quando il tramonto s’impadronisce del tutto. Un’aria magica s’innalza sul luogo, il fiume di gente inizia a tranquillizzarsi, ed anche i monaci paiono meno hollywoodiani e più in sintonia col contesto. Proprio ora le luci, i colori e le fragranze della Shwedagon si riscattano da una prima visione che pareva un rimando alla Gardaland o Mirabilandia nostrana. Rientriamo nel centro storico lungo la Shwedagon Pagoda Rd, dovendo prestare particolare attenzione ai marciapiedi, le vie sono parzialmente illuminate ed i marciapiedi spesso presentano grandi buche dove caderci dentro è un attimo. Effettivamente come ci era stato detto, è pericoloso girare di sera a Yangon, nessuno ti farà nulla, ma occhio ai crateri lungo le strade! La zona indiana ad ovest della Sule Paya è un brulicare di vita, qualsiasi cosa cerchiate qui si può comprare lungo la via, non sono tanto i negozi ad essere presi d’assalto quanto le bancarelle, così mentre i tantissimi negozi di telefonia son quasi tutti vuoti le bancarelle coi medesimi prodotti sono assalite. Qui il mercato è diviso in parti uguali tra Samsung e Huawei, gli altri costruttori sono ai margini, vero però che tutti esibiscono gli smartphone più avanzati a fianco del cellulare base di Nokia, regolarmente usato per telefonare…Gli antichi palazzi coloniali del centro, sovente decadenti all’inverosimile, sono le costruzioni col maggior fascino della città, alla faccia delle numerosissime pagode. Per noi sarebbe l’ultimo giorno del 2013, ma qui interessa poco, così la nostra ritardata ricerca di un ristorante per la cena ci mette a rischio di non trovare nulla, rimediamo in una bettola del popolo (2.000k) lungo la 38° a fianco della Puja Mosque. A servirci uno stormo di ragazzini felici e festanti, il lavoro minorile è un fatto che andrebbe chiarito sotto molteplici aspetti almeno in questo ristorante, non è facile intenderci sui piatti ma la qualità elevata, in una confusione totale, come se tutta Yangon avesse deciso di cenare tardi qui. Alle 21:45 pare esserci già il coprifuoco, come a Mandalay la città diventa un deserto, a differenza dei luoghi visitati in precedenza la temperatura serale si mantiene buona e non solo non necessitiamo di pile ma nemmeno di una felpa. Occasione per festeggiare il cambio di anno non ne abbiamo, così andiamo a riposarci in vista di una levataccia per l’indomani.
Tra le pagode a Bagan
20° giorno
Alle 5:45 il taxista del giorno precedente (allertato da subito) è già pronto a riportarci alla stazione dei bus di Aung Mingalar (6.000k, 30’ in una città deserta), nella confusione generale di questo non luogo ritroviamo il banco dove avevamo acquistato i biglietti e visto l’anticipo lasciamo gli zaini per trovare una colazione che per una volta ci permette di evitare le solite uova. Caffè in un ristorante/officina e muffins comprati da una rivendita a fianco (il tutto per 850k), è già tempo di prender posto sul bus Win Express (8.000k, 7h) destinazione Mawlamyne o Moulmein, cittadina principale dello stato Mon, anticamera per la stretta e fascinosa striscia di terra che va a sud lambendo il mare delle Andamane, da poco aperto agli stranieri. Alla stazione dei bus di Yangon scene pittoresche si moltiplicano, su tutte un venditore di cibo che sulla ruota posteriore ha installato un portapacchi con una brace per carbonella dove tiene in caldo specialità locali, la gomma ne godrà notevolmente. Il viaggio scorre lento tra scenari che variano a più riprese, pian piano si entra in un territorio decisamente meno battuto, più persone ci guardano curiose mentre salgono e scendono dal bus che non ha un orario preciso, dipende tutto dal flusso di avventori e dalle attese di cospicui carichi da imbarcare. Oltrepassato il lungo ponte sul fiume Thantwin (chiuso di notte, verificate di arrivare prima che chiuda altrimenti occorre attendere) che prima della meta finale è più mare che fiume entriamo a Mawlamyne, la nuova stazione dei bus si trova a sud del centro ed una volta scesi siamo assaliti da portatori che quasi si picchiano per poterci accompagnare in una delle poche strutture atte ad ospitare stranieri. La prima opzione ha posto solo in anguste celle di legno, ma è il fulcro delle attività turistiche del luogo, Breeze rest house, così su consiglio di 2 ragazze già pratiche del posto optiamo per l’OK GH, di fronte agli attracchi dei traghetti a ridosso del mercato di strada. Riusciamo a farci “personalizzare” la camera (15$ con colazione all’annesso ristorante, wi-fi discreto, acqua minerale a disposizione, doccia con acqua calda sempre operativa, ma soprattutto una delle poche attività dotate di generatore di corrente, fondamentale da queste parti) e ci godiamo la vista di un tramonto favoloso su questo tratto di mare chiuso dalla grande isola Bilu Kyun. Ritmi rilassati, ci godiamo la confusione del mercato serale che sorge nei paraggi della grande prigione, il prolungato black-out ci fa scegliere per cena il ristorante della nostra GH, illuminato e dalla scelta varia ma con un servizio lentissimo, non abbiamo molto altro da fare e ci immergiamo nel clima del sud notando come qui i gruppi organizzati ancora non arrivino, la presenza straniera è ridotta all’osso e tutto ruota attorno alle attività tradizionali.
21° giorno
Dopo una lenta colazione (si torna subito alle uova), attraversata la confusione totale del mercato mattutino (incomincia al buio verso le 5, alle 9 il più è già andato) trattiamo una motocarrozzetta (15.000k) per andare alla scoperta della Nwa-La-Bo, la pagoda della triplice roccia dorata. In realtà il conducente, bleffando, ci porta fino al punto di partenza dell’ascesa a Kyonka, solo i camion autorizzati possono salire quando c’è gente, cosa che non avviene in questa giornata. Attendiamo oltre un’ora, non compare nessuno e quindi non arrivano camion, decidiamo così di salire a piedi, non proprio consci di quanto ci attenda. Sotto il sole peggiore della giornata saliamo i 750m di dislivello che sono composti di un’erta iniziale, seguita da un falsopiano da dove scorgere la pagoda, una leggera discesa ed un muro finale in faccia al sole che taglia le gambe anche a gente allenata. In circa 2h ore si giunge alla vetta e qui le maledizioni lanciate per aver voluto salire senza attendere un passaggio (portarsi acqua e protezioni solari, lungo il percorso non c’è assolutamente nulla) volano via all’istante. La pagoda fa da base a soli 3 monaci rimasti, nel punto più esposto fa bella mostra di se il complesso delle 3 rocce dorate appoggiate le une sulle altre, qualcosa d’irreale, ben oltre quanto potrà mostrare la celebre roccia d’ora di Mt. Kyaiktiyo, in una pace assoluta con la vista che spazia oltre le montagne fino al mare. Durante la nostra permanenza non arriva nessuno, riusciamo a scambiare qualche parola con un monaco a conoscenza di piccole dosi d’inglese, contentissimo di fermarsi ad illustrare il suo percorso spirituale e materiale in questo piccolo angolo di paradiso. Già, perché quassù non viene nessuno a sistemare la pagoda ed il minuto monastero che fa da rifugio, non è luogo di pellegrinaggio celebre, anche se la recente apertura della zona è probabile che cambi velocemente le abitudini, e quindi oltre che leggere i libri sacri c’è da sporcarsi le mani e faticare. Nel piccolo parcheggio scambiatore dei camion c’è una specie di ristorante che offre qualche bibita fresca, l’acqua dalla brocca è offerta come il solito the verde, mentre tentiamo di interloquire con la gente di qui arriva un camion con alcuni turisti locali, abbiamo trovato modo di scendere velocemente (1.000k) così rientriamo in città spaparanzati sul retro della motocarrozzetta che ci ha atteso a lungo in tempo per salire alla Kyaikthanian Paya da dove scorgere il tramonto migliore della città. Non è la preferita e decantata da Rudyard Kipling, quella si trova più a nord, ma sorge nel luogo più mirabile della città, raggiungibile salendo un’imponente scalinata che taglia il Seindon Mibaia Kyaung, maggiore centro religioso della regione. Il tramonto non è paragonabile a quello di Bagan ma mette pace e ci fa decidere di raggiungere l’indomani l’isola di fronte, prima però dobbiamo capire come andarci e come girarla, ci rimettiamo in contatto con una guida incontrata alla mattina, un personaggio con sulla pelle i segni della dura storia sociale del Myanmar, da poco attivo con un’agenzia turistica, se vogliamo essere molto generosi nel definirla. In pratica sta prendendo contatti per portare in visita i pochi stranieri qui di passaggio, ci penserà lui a recuperarci degli scooter per girare l’isola (dove non ci sono mezzi pubblici per spostarci), provvederà a prendere contatto con una lancia per traghettarci e proverà a trovarci una mappa dell’isola, ma il meglio Marvellous Tours lo da raccontandoci le sue storie personali di antagonista politico della giunta militare, delle sue 4 incarcerazioni a causa di queste resistenze, dell’attesa per le elezioni del 2015 dove anche se contro il parere dei familiari e dei medici si candiderà per la NLD (il partito di Aung San Suu Kyi), ci illustra i durissimi anni di prigione, le botte, le malattie e quanto altro, felicissimo di poter raccontare le sue vicissitudini a stranieri senza più nulla temere, o almeno così pare accada in questo inizio di 2014. Per cena sosta al Mi Cho Rest, cucina indiana dal Sultano, posto imperdibile, nei paraggi delle tante moschee di Mawlamyine, il Sultano è veramente unico, mussulmano dalla barba gialla, non vende alcolici ma non ha problemi se gli avventori si portano la propria birra (informa lui dove procurarsela), ci rimpinza di ogni specialità, scelta la pietanza base fa lui da guida, in un vero e proprio one-man-show che dura da parecchi anni e che gli auguriamo duri a lungo. Non si può non passare da qui, consigliatissimo su tutte le guide di viaggio, va trovato seguendo le indicazioni (di fronte all’ingresso dell’Attram Hotel sul lato città) perché non ha insegne, si mangia nel poco spazio all’interno oppure sulla strada, facciamo fatica a finire tutto quello che ci porta perché la moltitudine di spezie si fa sentire, per fortuna i vari tipi di pane spengono il fuoco (3.250k). Fatica a collocare l’Italia nel mondo, ma è felicissimo di sapere che da quel lontano paese abbiamo fatto tappa da lui e chissà, magari ci vediamo anche domani, maybe continua a ripetere come saluto mantrico.
22° giorno
Al risveglio la nebbia è padrona della baia, ma tempo di colazione in hotel ed il sole si riprende la scena, raggiungiamo la minimale sede di Marvellous Tours (un garage con un tavolo e 3 sgabelli alti 15cm, nulla in più) dove inforchiamo gli scooter recuperati da amici e vicini (8.500k al giorno compreso il pieno di benzina) e veniamo accompagnati ad un imbarco a sud della città, quello dei locali verso Bilu Kyun, la grande isola di fronte (sull’isola ufficialmente gli stranieri non possono soggiornare), che tradotto significa isola dell’orso più per la forma che rappresenta che per l’ipotetica presenza di quest’animale di casa in ben altre latitudini. All’imbarco si trova una grande mappa dell’isola con riferimenti solo in lingua indigena che siamo invitati a fotografare, sarà l’unica ancora di salvezza per avere indicazioni da chiedere agli abitanti del posto. Il passaggio in barca costa 5.000k, il carico dello scooter lato continente 800k mentre quello sull’isola 600k a tratta, il passaggio sui più grossi ferry dal centro città costa 25.000k a/r, ma porta nei paraggi del villaggio maggiore, dura 45’ invece di questi 5’, ed inoltre l’ultimo rientro è previsto per le 15 mentre con queste lance si può rientrare a piacimento. Sbarcati ci troviamo in un mondo a parte, terra ed acqua, niente strade asfaltate ed indicazioni, lungo il sentiero troviamo più incroci, fortunatamente ad uno c’è una persona che ci da qualche indicazione per un giro completo e così prendiamo verso nord per arrivare ad un villaggio dove veniamo visti come un orso nel deserto. Siamo l’attrazione del mese, nessuno si esime dal darci info su dove andare e come, iniziamo quindi il periplo dell’isola montuosa che non permette mai di raggiungere il mare anche perché la sua peculiarità è data dai numerosi villaggi tradizionali, se sulle prime paiono quasi tutti uguali pian piano ci si accorge che ognuno ha caratteristiche distinte, raggiungiamo più monasteri, alcuni in perfette condizioni altre quasi macerie, dopo innumerevoli escursioni di andata e ritorno su sentieri improbabili a metà giornata facciamo tappa in corrispondenza di un lago nel mezzo dell’isola dove si trova anche un piccolo ristorante, serve quel che il cuoco preferisce ma la qualità dei noodles è eccellente come i frullati (noodles, acqua minerale, frullato e the sempre offerto a 1.500k). La temperatura è piuttosto elevata così ripartiamo per cercare un po’ di refrigerio sugli scooter scoprendo la zona a sud, estesa e più abitata, con insediamenti pure in mattoni, raggiungiamo la punta meridionale da dove in lontananza avvistiamo il mare ma senza poterlo raggiungere, un’antica pagoda fa da punto di svolta verso campi coltivati percorribili lungo strettissimi sentieri che però portano ad un blocco in corrispondenza di lavori di sbancamento della montagna. Qui tra gli altri troviamo un ingegnere che parla inglese e ci spiega come muoverci, peccato che i tanti, troppi sentieri siano identici gli uni con gli altri, dobbiamo ritornare al villaggio e prendere la via principale, questa asfaltata che corre veloce verso l’attracco delle imbarcazioni più grandi per la terraferma. La strada è trafficatissima, di fatto il collegamento principale dell’isola, tutto attorno campi coltivati coi bufali a faticare, ma l’imbarco non è quello per noi, nonostante lo spettacolo di genti e bagagli sia piuttosto interessante. Riprendiamo la via cercando una deviazione per il nostro attracco, solo che i sentieri sono numerosi e tutti uguali, arriviamo al nostro quando il giorno volge al desio, spettacolo fantastico sulle lagune che lambiscono la costa con colori regalati dal sole basso che vi si specchia, va detto visto per puro caso ma consigliato assolutamente. Ripetiamo le procedure di carico e scarico scooter tutte manuali, i quali occupano le lance per intero lasciando a noi solo piccoli strapuntini che rendono più affascinante l’attraversata col sole che finisce per nascondersi nell’acqua. Il lungo fiume/mare nella parte a sud si riempie di bancarelle per una specie di mercato serale dove poter mangiare spuntini locali, ma noi dobbiamo consegnare gli scooter, immaginiamo che vista l’ora da Marvellous saranno già preoccupati, non tanto per la possibilità di furto (per il noleggio non si lascia nulla, si paga e si è liberi di andare) ma per via di qualche possibile incidente lungo i sentieri pieni di buche e solchi dell’isola che in notturna non sono certo un bel viaggiare. Raccontiamo la nostra bella esperienza sull’isola, il proprietario è molto interessato in quanto siamo i primi e vorrà utilizzare i nostri commenti per incentivare e personalizzare la sua attività, ovviamente altri scambi di opinioni sulla situazione politica del Myanmar sono dovute ed i tempi si protraggono. Il lungo percorso da qui all’hotel (prevedere 25’ a piedi) ci permette di essere pronti per cena tardi per i costumi locali e con l’ennesimo black-out, così scelta obbligata il ristorante dell’hotel (2.900k) che non è affatto male ma cambiare per provare situazione differenti non sarebbe stato male.
23° giorno
Colazione in hotel poi con motocarrozzetta raggiungiamo l’imbarco delle lance per Hpa-an che ora si trova a nord-est del grande ponte. Il servizio pubblico non esiste più ed occorre affittare una lancia, presso l’hotel Breeze gestiscono il tutto e nel costo della lancia (60.000k, da dividere fino a 5 persone) è compreso anche il pick-up dall’hotel all’attracco. Con oltre 30’ di ritardo iniziamo a risalire il fiume Thalwin, la temperatura è mite ed il sole inizia presto a far la voce grossa, fortuna che un esile tetto evita il contatto diretto che si protrarrebbe per quasi 5h. La prima parte del tragitto si svolge nel mezzo di una forte corrente, tra isolotti e rive non così coperte di gente al lavoro perché oggi è la festa dell’indipendenza (4 gennaio 1948, dalla Gran Bretagna), facciamo tappa in un villaggio che il nostro barcaiolo conosce bene, Htone-An, dove spezziamo il cammino con un ristoro a base di prodotti locali e coffee mix gentilmente offerti proprio da lui. Nel villaggio a fianco di una pagoda in ristrutturazione sorge proprio sul fiume una strana costruzione a forma di locomotiva dove il camino del vapore è rappresentato dalla Golden Rock di Mt. Kyaiktiyo, nel complesso una bella visione, ma l’intero villaggio merita un passaggio. Riprendiamo la navigazione entrando nello stato Kayin e pian piano lo scenario diventa molto più interessante, le classiche montagne che fan tanto sudest asiatico iniziano la loro comparsa e lo spettacolo diventa sontuoso. Hpa-an, ancora poco battuta sorge qui nel mezzo, sbarchiamo a sud della cittadina e con un pick-up raggiungiamo il centro (1.500k) dove proviamo la Soe Brothers, la GH che fa da fulcro per ogni attività nei paraggi. Al primo piano di una palazzina nei paraggi del mercato, è un intricato dedalo di scatole cinesi e scale, fortunatamente troviamo posto (25$ per camera doppia senza colazione, wi-fi, acqua minerale sempre a disposizione ed una montagna d’info disponibili) e siamo subito coinvolti dal personale per escursioni nella zona in base a quanti giorni avremo a disposizione. Ci “mandano” immediatamente a visitare il Monte Hpar-Pu, dall’altro versante del fiume, escursione che non va organizzata ma gestibile in proprio, basta attraversare il Thalwin (500k) ed avere la voglia e la forza di intraprendere l’ascensione sotto il sole cocente su questa roccia che pare un grande triangolo sormontato da un cubo che fa da terrazza su tutta la piana. Purtroppo causa frana il cubo in vetta non è scalabile, poco male perché appena sotto sorge una specie di piccolo spiazzo dove ammirare un panorama da brivido. Il largo fiume riempie di anse e paludi la grande valle, montagne calcaree che paiono pareti verticali coperte di vegetazione fanno da sfondo alla scena, vita rurale in ogni dove, pare un susseguirsi di diapositive promosse dall’ufficio turistico dello stato invece è tutto vero. Quando il sole inizia a calare scendiamo per goderci il tramonto vero e proprio attraversando il fiume sull’esilissima lancia di un Caronte improvvisato e finiamo la visita alla pagoda antistante, la Shweynhmyaw, che di sera pare meno finta rispetto al giorno. Come per le altre cittadine del Myanmar ma qui anche di più, quando il sole cala la vita scompare, trovare un ristorante non è così facile, nei paraggi della GH c’è il Khit Thit (2.000r) che serve anche la variante malese di alcuni piatti, più speziata e piccante, così da variare i sapori di una cucina che orami c’è familiare. Fondamentale la cartina disegnata che al Soe forniscono per trovare ogni luogo d’interesse in città, da dove far colazione a dove partono i bus per nord o sud, il Soe è frequentato anche dagli altri stranieri del luogo, qui definiamo le visite del giorno a seguire e compriamo i biglietti del bus per rientrare verso Yangon, con possibilità di comprare anche il parziale, cosa che direttamente sul bus agli stranieri non è concessa, viene venduto il biglietto intero fino a Yangon anche se si scende prima.
24° giorno
La mappa del Soe segnala un “good place for breakfast” che ricercando un po’ dovrebbe corrispondere al nome di Shwe Htone Maung (500k), promessa mantenuta, poi con un pick-up organizzato sempre dalla GH si parte per una giornata di visita nella zona, da poco aperta agli stranieri indipendenti e di cui si dicono meraviglie. Il pick-up costa 30.000k per tutta la giornata, ospita fino a 8 persone, il prezzo va diviso fino a 6, quindi il minimo come in questo giorno è di 5.000k, un prezzo incredibilmente basso vista la lunga escursione e la disponibilità del conducente/guida ad adattarsi ai gusti dei trasportati. Alla partenza la temperatura ci porta ad indossare una felpa, ma durante il giorno sarà ben diverso, attraversiamo il grande e nuovo ponte sul Thalwin (della spesa se ne occupa il conducente al volo) per raggiungere alcune grotte, iniziando dalla Yathay Pyan Cave, che si raggiunge salendo alcune scale nel mezzo di una montagna a strapiombo su di un placido laghetto. Grandi statue del Buddha e qualche pipistrello riempiono l’ampio spazio, nel fondo sul lato destro ci si può avventurare in stretti corridoi non illuminati che portano a piccole grotte dove candele illuminano con fascino decorazioni e ninnoli dorati di ogni genere. Da qui prendiamo per la più celebre e venerata Kawgun Cave (3.000k), più che una grotta un sentiero tra rocce, decorato con migliaia e migliaia di piccolissime statuette del Buddha direttamente nelle pareti rosse, per gli avventori locali il luogo è sacro ma l’impressione è di trovarsi nel mezzo di uno spettacolo finto. Riattraversiamo il fiume e facciamo tappa al monastero di Kyauk Kalap, costruito su di uno strettissimo sperone di roccia, già questa situazione ne farebbe una visione particolare, ma la realizzazione di dighe nella zona ha trasformato la piana in un grande acquitrino, così questo gigantesco dito di roccia si trova nel mezzo di un lago e la visione è stupefacente, artificiale sì ma affascinante. Per fortuna un enorme hotel proprio di fronte è solo abbozzato, ma nonostante questo i visitatori sono molti, l’accesso lungo un pontile pare l’ingresso ad un match clou sportivo, la parte mistica deve legnare il passo mentre la vista tra le montagne a picco e le valli verdissime rimane intatta. La montagna simbolo del luogo è il Monte Zwegabin, ascesa e discesa richiedono l’intera giornata, così visitiamo solamente il giardino ai suoi piedi colmo di statue del Buddha di grandi dimensioni raccolte su chioschi, sono centinaia e centinaia, più impressionanti per spazio e numero che per qualità. Sosta alla waterfall, in realtà pozze d’acqua collegate dove dalle superiori piccole cascatelle danno il nome al luogo, tutto attorno ristoranti all’ombra per riposarsi mentre i più avventurosi affrontano bagni in un’acqua melmosa ma sacra, i più completamente vestiti regalando agli abiti un viaggio nel tempo del sottosuolo birmano. La pausa ci rende edotti sulla situazione attuale del Bangladesh (luogo conosciuto ai più per avere un’attrazione assoluta per disastri naturali, epidemie, insomma problematiche di ogni dove e per assurdo un grande richiamo per i viaggiatori indipendenti), sul pick-up viaggiano due neolaureate danesi reduci da 6 mesi di dottorato sulla movimentazione delle acque e ce ne disegnano una visione allarmante e quasi senza speranza, cosa che in seguito leggendo sui media (dove alcune rare notizie trapelano) viene confermata, per loro la situazione quotidiana del Myanmar pare un sogno rispetto ai 6 mesi precedenti. La prossima tappa è a Saddar Cave, il meglio della giornata ma probabilmente il meglio vissuto in questo viaggio. Dopo aver attraversato campi e villaggi ci avviciniamo ad una montagna nel mezzo delle piantagioni di riso, l’accesso alla grotta avviene su di una scala presieduta da 2 grandi elefanti di roccia, la prima parte della grotta non è tanto differente dalle altre, le solite statue del Buddha onnipresenti, pipistrelli e poco altro, ma la guida ci conduce in un passaggio sulla sx della grotta principale e da lì parte un sentiero nel buio (portarsi le torce, nessuno le vende/affitta all’ingresso) che tra passaggi minimi, aperture nel cielo, stalagmiti, formazioni rocciose di ogni tipo ci permette di attraversare la montagna per uscire dal lato nascosto. Giochi di luce favolosi, immagini rocciose che con le ombre della luce prendono vita tra pipistrelli a migliaia che stridendo all’impazzata riempiono di frastuono la grotta, al termine una discesa che porta ad un laghetto e qualche capanna nel mezzo del nulla. C’è chi in estasi totale urla di essere a Jurassic Park, che sia virtuale o meno una piccola comunità abita questo remoto angolo di mondo ed intermezza l’attività bucolica al risicato trasporto dei pochi viaggiatori che vi giungono. Il piccolo stagno pare incastonato tra le montagne e le risaie che si spingono ovunque, una volta saliti (1.500k) puntiamo una delle montagne ed avvicinandosi ci accorgiamo che un passaggio, strettissimo tra acqua e roccia s’intravede, proprio in quel risicato spazio s’inoltra il barcaiolo (nel mio caso un bambino che avrà meno di 10 anni ma che pare padrone assoluto della situazione) remando al buio assoluto, perché per intravvedere le prime luci accorre oltrepassare una svolta della caverna, da lì l’attesa per la meta diventa fortissima e l’apparire di un nuovo laghetto attorniato da montagne è l’ennesima meraviglia, come l’attraversamento delle risaie che sono lavorate per impiantare le piccole pianticelle di riso, un massacrante lavoro manuale su spazi infiniti. Navigando tra queste risaie tornano alla memoria i vari film sul Vietnam, quasi che un dissidente della giunta militare ancora immerso nelle sue paure o scontri personali possa da un momento all’altra riemergere alla civiltà ed allo scontro. Tutto ciò non avviene, dopo un lungo attraversamento attracchiamo alla montagna e da lì ne percorriamo il periplo tra pochi lavoratori che seminano ed impiantano il riso. Il verde è assoluto, quasi impressionante, lasciare questo luogo è dura ma abbiamo altre visioni possibili in giornata e così partiamo con gli occhi ed il cuore che rimangono in questo luogo. Prima del tramonto abbiamo tempo per ulteriori visite nei dintorni del villaggio di Lakana, la prima alla grotta di Kawtka Theung dove una fila interminabile di statue di monaci porta ad un villaggio costruito su case flottanti, spazio riservato ai giovani del luogo per far festa. Nei paraggi, in condizioni di lavoro estreme, vengono spaccate manualmente enormi rocce per procurare materiale da utilizzare alla costruzione di strade, le baracche dei lavoratori in pessimo stato sorgono al bordo di un idilliaco lago attorniato dalle montagne. Il celebre ponte di Lakana, a filo d’acqua sul verde del lago pare venir inghiottito dalla natura, può essere percorso solo da piccoli mezzi a motore ma non da auto, la visione ci accoglie col sole già nascosto dalle montagne, occorre rientrare a Hpa-an e sul pick-up la felpa è d’obbligo dopo il caldo del giorno. Troviamo una sola attività dove potersi collegare ad internet in modo non da bradipo, Pitarbeergy (500k x h), nelle vicinanze del luogo da colazione dove decidiamo di cenare (2.500k), menù abbondate ma non vendono birra, non facile da recuperare alla sera in quest’angolo di città.
25° giorno
Colazione approntata in camera, a disposizione scaldacqua elettrico con caffè o the, biscotti rimediati la sera precedente in negozio, poi raggiungiamo la piazza da dove partono i bus per le varie destinazioni, tutti tra le 6:30 e le 7:30. Non è facile capire quale sia l’autobus giusto, nessuna indicazione o scritta, i vari assistenti alla guida leggono velocemente il biglietto poi dopo circa 30’ di attesa uno ci dice che possiamo salire con destinazione Kyaikto (5.000k, 3h), ma prima di lasciare Hpa-an devono fare una deviazione per il posto di polizia dove registrare i passaporti degli stranieri. Espletata questa formalità andiamo diretti fino alla meta, lì scesi siamo assaliti da chiunque offra un passaggio per Kinpun, punto da dove salire alla Golden Rock. Ci sono camion collettivi (500k, 20’) e siamo scaricati in un villaggio sorto dal nulla nel mezzo di una confusione oceanica, è il luogo sacro per eccellenza del Myanmar, fortunatamente siamo arrivati qualche giorno dopo la festa dell’indipendenza altrimenti non avremmo trovato da dormire nemmeno per terra all’aperto, invece prima di scendere un ragazzo salito al volo sul camion ci propone una struttura presente anche sulla LP e verificata la soluzione l’accettiamo al volo, Pann Myo Thu Inn (9$ con colazione, wi-fi gratuito discreto, bottiglietta di acqua minerale e doccia calda funzionante regolarmente) dove lasciamo gli zaini ed immediatamente cerchiamo di salire alla Golden Rock. La stazione di partenza dei camion si trova appena lasciata la via principale ed unica di Kinpun sulla sx arrivando da Kyaikto, impossibile non vederla data la confusione, camion in partenza se ne trova in continuazione, appena sul cassone si stivano 42 persone (7 file di cui l’ultima praticamente nella gabbia esterna con 6 persone strettissime su ognuna) si sale e si arriva fino al punto più alto, a differenza di quanto accadeva fino a nemmeno 15 mesi prima (2.500k, 30’). La salita è dura in camion, chi vuole e ha tempo può farla a piedi, per il giro completo necessitano circa 10h ma si può scegliere di scendere in camion una volta arrivati senza nessuna prenotazione, qui si sale e scende sui cassoni a ciclo continuo. Una volta in vetta però il tanto proclamato misticismo e la sacralità del luogo non trovano riscontro, sporcizia, commercio di qualsiasi cosa ovunque, confusione, insomma una delusione, la roccia fa sì impressione ma pare un’attrazione da parco giochi e poco più (accesso 5.000k), meglio, molto meglio immergersi nel villaggio blu sottostante dove la sporcizia non scompare ma le caratteristiche del mercato lasciano basiti, viste le teste di capra immerse nel sangue in vendita o altre chicche similari. Da qui si può osservare la roccia in lontananza, ma un’unica visione la pone dorata nel mezzo della verde foresta, del blu del villaggio e dell’azzurro del cielo, insomma, non male. La discesa in camion ha le medesime caratteristiche dell’andata, solo che vista l’allegra velocità è ben più faticosa e si sbatte avanti e indietro che è un piacere. La parte restante del pomeriggio la prendiamo di relax, il villaggio mostra ben poco, negozi che vendono tutti i medesimi prodotti, con priorità assoluta alla frutta glassata, non provata quindi non ho commenti da aggiungere alla specialità principe di Kinpun. Cena presso Kaung San Rest (2.800k), consigliatoci dal proprietario del nostro hotel che ci informa come a Bago, prossima meta, suo fratello possieda un hotel dove fermarci, ci penserà lui a recuperarci alla fermata del bus ed organizzare le escursioni che intenderemo fare. Serata nella veranda all’aperto dell’hotel, non fosse per le zanzare sarebbe tutto perfetto.
26° giorno
Colazione in veranda poi il proprietario ci accompagna al nostro bus, nella calca totale del luogo non sarebbe stato semplice trovarlo in autonomia, e partiamo destinazione Bago con Win Express (5.000k, 2h, acquistato in anticipo in hotel) senza dover cambiare a Kyaikto. A Bago non c’è una vera e propria autostazione, ci scaricano all’ingresso della città dove il fratello del proprietario dell’hotel di Kinpun ci carica sugli scooter suoi e degli amici lì giunti a supporto per portarci al suo Emperor Hotel (10$, doccia calda con qualche difficoltà, wi-fi decente, bottiglia di acqua minerale, kit igienico ma niente colazione) dove trattiamo per le escursioni della zona. La nostra priorità è per le Moeyungyi Wetland, le paludi sorte in seguito alla costruzione di una diga ma ad oltre 100km da qui che quindi non deturpa il panorama. Andarci non è facile, niente di già organizzato, o si affittano scooter o visto il nostro numero quasi meglio un’auto con autista che dopo lunga trattativa strappiamo a 70.000k. Capiamo subito come il luogo non venga quasi mai visitato, contrattiamo da subito anche il costo dell’escursione in lancia (30.000k per il giro completo, ci si sta al solito fino a 5), partiamo però nel pomeriggio perché lo spettacolo migliore le paludi lo regalano al tramonto. Nel frattempo ne approfittiamo per una veloce visita a Bago presso il mercato, molto caratteristico, ed al lago artificiale, molto meno interessante, scorgendo le pagode più vicine all’hotel. Facciamo così diventare il tempo giusto per l’escursione, impieghiamo un’ora per arrivare al luogo, che si trova svoltando a dx dalla statale per Kyaikto indicato da un cartello coi caratteri traslitterati, il biglietto di accesso costa 2.000k, una lunga passerella porta alla palafitta centrale da dove salpano le lance, e da dove si potrebbe accedere a belle houseboat che paiono chiuse da tempi biblici. Gli addetti alle lance tentano di proporci un prezzo molto più alto che quello trattato in precedenza, ce ne infischiamo e non accettiamo trattative, dopo un’attesa di 30’ chiamano il personaggio dell’hotel per far da traduttore tra noi e loro, ribadiamo la nostra convinzione e l’abbiamo vinta, attendiamo ancora per avvicinarci al tramonto e quindi partiamo per l’esplorazione di questo grande specchio d’acqua che si rivela disabitato. Abbattuti da questo viaggio che ci pare inutile, rientrando dal versante ovest ed inoltrandoci tra i canneti la situazione cambia, sicuramente non avvistiamo le 125 specie ornitologhe differenti che vengono denunciate, ma è tutto un battito d’ali di questi volatili in fuga che si godevano il sole nella quiete assoluta. Incontriamo anche alcuni pescatori che sgranano gli occhi al nostro passaggio, evidentemente qui non vedono mai nessuno, poi mentre il tramonto inizia a colorare il cielo e l’acqua il primo si riempie di stormi di uccelli di ogni tipo, scene che rimandano a visioni hitckockiane e finalmente lo spettacolo naturale promesso prende forma. Ovvio che ora non si voglia più lasciare il luogo, è già buio pesto quando nel mezzo del nulla ripartiamo in auto verso Bago. Affrontiamo il viaggio di ritorno nel mezzo di un traffico incredibile, camion che viaggiano lentissimi portano ad azzardati sorpassi anche perché nonostante si viaggi a destra come in Italia, le auto sono attrezzate con la guida a sinistra come in India o Thailandia, per cui chi di noi si sacrifica a fare il navigatore deve dare il via all’autista per ogni sorpasso, e guai dimenticarsi anche una sola volta di parlare! Ceniamo al Rest. 35 (3.600k), consigliato da vari avventori locali ma senza nessuna peculiarità se non la vicinanza all’hotel. Terminiamo la giornata dal terrazzo dell’hotel dove si gode una splendida vista notturna sulla città, dominata dalla Shwemawdaw Paya, la più alta di tutto il Myamar, che regala possibilità di splendide foto.
27° giorno
Colazione proprio di fronte all’hotel presso Hadaya Cafè (800k, buon caffè nero o mix e paste di ogni tipo, finalmente niente uova), poi dividiamo le visite nella mattinata, si può fare un veloce giro delle pagode accompagnati in scooter (10.000k) o visitare i dintorni del mercato con scene di vita rurale apprezzabili, io scelgo questa seconda via che comunque porta ad un ritrovo fisso alle 11 presso il Kha Khat Wain Kyaung, il grande monastero che ospita oltre 400 monaci. A quell’ora i monaci pranzano, è possibile assistervi, sia alla preparazione del gigantesco pranzo (in questo momento non sono presenti visitatori), sia alla fila per entrare in mensa (e qui la gente aumenta con presenza cinese di pessimo gusto, fregandosene dei monaci passano da una parte all’altra della fila pur di riprendere e fotografare qualsiasi cosa, compresi loro stessi che pescano il riso da giganteschi paioli), sia nel momento vero e proprio del pranzo (e qui pian piano la gente se ne va). Spettacolo confezionato, può essere, ma se lo si vive dai preparativi nemmeno troppo, certo meno autentico delle scene incrociate lungo il fiume dove s’incontra la vera anima rurale della popolazione, e nei dintorni del mercato dove si vende di tutto, con odori fortissimi, su tutti il pesce essiccato. Rientrati in hotel abbiamo giusto il tempo per ritirare gli zaini ed essere caricati su di un pick-up che ci accompagna alla partenza di un local bus per Yangon (3.000k, 1:20h), biglietto comprato il giorno precedente in hotel, ma per il local bus non c’è problema di posto, se son terminati quelli sulle panche se ne inventano di ogni tipo. Questo tipo di bus non fa tappa alla stazione di Aung Mingalar, ci scarica lungo la strada all’entrata est della città, fortuna che i taxi non mancano così in 45’ siamo in centro (6.000k). Oggi trovare posto è però impresa titanica, tentiamo la sorte in almeno 12 hotel o GH ma siam sempre rimpallati, fortunatamente nei dintorni della Sule Paya una coppia di anziane venditrici di verdura lungo la strada ci forniscono un depliant di una nuova struttura che si trova vicino allo Yangon River nella zona adiacente ai dock. Percorso tutto il centro da est a ovest troviamo finalmente accoglienza al Golden Star (camera doppia 30$ con colazione, wi-fi, bottiglia di acqua minerale, aria condizionata ecc…) piccolo rifugio appena sorto e quindi poco noto che però nel giro di breve si riempie, al quale si accede salendo al secondo piano di un condominio che non ispira grande fiducia, ma la costanza e lo spirito avventuriero viene ampiamente premiato. Impariamo che la città è completamente piena di stranieri causa convegno mondiale di testimoni di geova, cosa che corrisponde al vero perché durante le visite future ne scorgeremo un numero incredibile ben identificabili dal pass sempre esibito in qualsiasi luogo. Abbiamo tempo per visitare la zona di Chinatown dove si trovano alcuni templi cinesi che dopo tante pagode dorate son quasi apprezzabili nella loro diversità, unita al fatto di poterli visitare senza doversi togliere le calzature, per poi girarci lambendo il tramonto la parte indiana, entrambi veri e propri mercati all’aperto, dove anche le vie principali strappano corsie al traffico per impiantare tavoli e cucine, i bus lambiscono gli avventori ma tutto pare tranquillo e normale. Questa parte di Yangon conserva ancora una grande fascino, ben più che la parte monumentale, oltre ad una vita incredibile. Al solito però le attività terminano prima delle 20 e tutto si spegne e chiude, così rimediamo un ristorante cinese di lusso, Chit Sayar (4.200k), di buona qualità ma che esige persino il coperto, roba inaudita da queste parti. Al rientro la città pare in letargo, così attraversare le vie che nel pomeriggio avevano costituito un problema di difficile soluzione diventa elementare.
28° giorno
Non c’è spazio in GH per colazione ed allora se lo inventano sul ballatoio delle scale, idea originale così da interagire con gli abitanti che escono per recarsi al lavoro, colazione a base di frutta e brioche confezionate, un sogno dopo la montagna di uova. Ultimo giorno di Myanmar dedicato interamente a Yangon e precisamente ai suoi mercati che al passaggio precedente non avevamo degnato di attenzione. Per recarci al celebre Bogyoke Aung San Market percorriamo la Konzaydan St. che corre tra la 27th e la 26th in modo da poter vedere i templi hindu Sri Siva e Sri Kali, qualcosa di totalmente differente dall’idea di luogo di culto birmano, entrambi mostrano un gopuram incredibilmente decorato di stucchi di ogni genere, ma soprattutto colori a non finire, alterazione visiva evidente nel contesto in cui si collocano. Il grande mercato che prende il nome dal paladino dell’indipendenza si sveglia tardi ed è composto di più strutture comunicanti, la palazzina a due piani sul fronte strada si apre ad un grande capannone centrale attorniato da altre strutture irregolari, vi si trova di tutto, manufatti artigiani di notevole pregio, vestiti, pietre preziose a non finire, souvenir a prezzi irrisori, rivedo gli ombrelli costruiti sulle palafitte del lago Inle, insomma un paradiso delle compere a prezzi nemmeno immaginabili per chi provenga da un altro continente. Ovunque si tratta sul prezzo, non ho provato però con le pietre preziose, non sono interessato all’argomento ed avendo già tante altre cose da contrattare ho saltato il test. Nei pochi spazi all’aperto vengono improvvisati bar dove assaggiare succhi dei più svariati frutti, ma nella zona a ovest sorgono piccoli ristoranti ed un padiglione dedicato alla ristorazione dove le intraprendenti cuoche assalgono qualsiasi avventore proponendo di tutto e di più, spesso anche quello che non hanno e che poi devono comprare dalla concorrenza quando non invitare l’ospite ad andarselo a prendere (pranzo tipico 3.000k). Lasciamo questo mercato invaso da testimoni di geova, così tocchiamo con mano che quanto ci era stato detto il giorno prima sulla loro presenza a riempimento della città fosse vero, ci rechiamo al Theingyi Zei imbattendoci prima nel Open-air Market, vero e proprio paradiso dei medicinali. Qui non serve nessuna ricetta per procurarsi qualsiasi prodotto, chi fosse interessato ora sa dove rivolgersi. Il Theingyi Zei Market è diversissimo dal precedente, esisteva già una differenza di base, ma la presenza turistica l’ha ampliata enormemente. Quest’ultimo è ora il centro assoluto delle stoffe, tra percorsi strettissimi su bancarelle impilate fino a 5 metri di altezza dove ogni tessuto può essere reperito, non c’è specie di longy che qui non si possa recuperare, ma essenzialmente rimane un mercato per la gente del luogo, mentre al piano superiore internamente fa segnare il passo invece sulle terrazze che lo circondano si stanno attrezzando ristoranti sempre più alla moda. Terminiamo la visita dei mercati visitandone uno attiguo dedicato a frutta e verdura, più per gustarci una visione coloratissima che per comprare qualcosa, dopo una giornata del genere per noi ben anomala rientriamo in hotel in anticipo per gustarci un caffè sul ballatoio delle scale dove incontriamo una coppia di Torino con cui ci scambiamo impressioni di viaggio, loro hanno appena comprato un biglietto aereo per il sud destinazione Dawei, porta d’accesso all’arcipelago sul mar delle Andamane aperto da pochissimo tempo agli stranieri. Ovviamente la cosa ci attrae ma il nostro visto è al termine, dobbiamo ripartire, ma l’info è buona per una possibile prossima volta, il Myanmar non è visitabile in un sol colpo, soprattutto ora che aprendosi si possono toccare le aree a nord oltre che la lunga penisola a sud e magari a breve oltre alla zona più celebre per il bel mare di Ngapali beach anche Mrauk U ed i non lontani villaggi dello Chin State, al momento assolutamente vietati perché terreno di guerra. Cena indiana da Ingyin Nive (2.600k) ottima ed abbondante, praticamente rabbocco libero, per gli amanti della birra o alcolici in genere brutte notizie, qui non la servono come quasi tutti i ristoranti del quartiere.
29° giorno
Alle 6 di mattina un taxista che abita nello stesso condominio dell’hotel ci porta in aeroporto (7.000k, 35’, a quell’ora il traffico è limitato) dove le pratiche sono velocissime. L’aeroporto è più grande di quello di Mandalay ma non particolarmente trafficato, le 2 ore di anticipo che sono consigliate ci portano ad avere tanto tempo a disposizione da impiegare giusto leggendo visto che c’è ben poco da fare, i pochi bar hanno prezzi occidentali (una brioche 1,5$, un caffè 4$) e di negozi da visionare poca traccia, unica nota positiva il fatto di non dover più pagare la tassa d’uscita, gabola che fino a poco tempo fa veniva regalata come ultima gabella nazionale ai viaggiatori, chi non si presentava coi soldi contati rischiava di rimetterci tutto quanto gli spettava di resto dai 10$ indicati, non pagabili in kyat. Il volo AirAsia parte puntuale ma impieghiamo 30’ in più del previsto, le pratiche al Don Meaung di Bangkok veloci, col bus A1 (30b, 15’) ci avviciniamo al centro, col 59 (17b, 60’) arriviamo nei paraggi di Khaosan Road, il tanto tempo è dettato dal fatto che la città inizia a paralizzarsi per l’imminente shoutdown. Ritorniamo al fido Cozy Thai G.H dove lasciamo gli zaini e usciamo per pranzo al Number One (85b) al fianco del quale compriamo da subito il passaggio all’aeroporto del giorno seguente (100b), ed anche qui causa blocchi in città ci segnalano come la situazione sia di confusione ed occorra partire oltre 4 ore in anticipo rispetto al volo. Con un tuk tuk (200b) raggiungiamo la zona centrale di Siam Square, la pacchia dei centri commerciali dove il meglio della tecnologia di ogni tipo fa sfacciata mostra di se (elettronica, abiti, auto, calzature, ecc…). Vero, un chilometro abbondante di centri commerciali sottoforma di grattacieli o stravaganti strutture sono lì per essere assaliti dai turisti arrivati da ogni parte del mondo, tutti presentano i medesimi marchi a prezzi non così diversi da quanto si possa trovare da noi con buone ricerche, ovvio che novità di cui noi abbiamo solo sentito parlare qui facciano già capolino in negozi dal design fantascientifico, tra scale colorate che suonano note differenti ad ogni passo. Ma tutto questo non fa per noi, meglio riagganciarci alla realtà ed entrare nel contesto dello shoutdown, la grande protesta antigovernativa che si sta preparando per bloccare la città. Alle truppe di governo, distinguibili per i vestiti rossi ma di fatto non presenti in strada, sostenitrici della leader appena deposta (sorella dell’ex tycon locale che tramite lei gestiva il potere dall’estero, re dei media che si è preso il paese, ricorda qualcosa…?) si contrappongono i gialli, dal colore della monarchia thailandese che non solo ne chiedono la cacciata definitiva ma vogliono cambiare il sistema di voto, questi già da alcuni anni sono i più attivi sul terreno e “possiedono” larghe parti della città, solo che oggi manifestano anche i bianchi, a me sconosciuti. Quindi come non interessarsi a questi accadimenti nel mezzo di una città in rivolta? Vengo così ad imparare che i bianchi, una specie di borghesia locale, sostengono la cacciata della premier ma vogliono votare quanto prima con l’attuale sistema elettorale, una situazione intricata che sarà meglio approfondire. Dopo varie intervite improvvisate, dove i bianchi risulteranno ben più timorosi nell’esporsi rispetto ai gialli, rientriamo nella nostra zona con non qualche problema di viabilità in tempo per un massaggio articolare (220b, 1h) e per cenare in una delle tante bancarelle lungo Rambutri (105b), terminando la serata ad una manifestazione dei gialli che occupano per intero la grande Ratchadamnoen Klang Road fino al monumento alla democrazia, non un caso. Qui tra musica, comizi, bancarelle, cavalli di frisia, sacchi di sabbia come ai tempi di guerra si fa festa e ci si prepara a resistere, gli stranieri sono i benvenuti perché il carattere pacifico delle dimostrazioni deve essere visibile al mondo interno. Oggi è venerdì, il blocco totale è previsto per lunedì, fervono i preparativi, il centro città, comprese le zone dei backpackeristi, si devono adeguare, ma poco male poiché anche questa è una maniera per fraternizzare.
30° giorno
Colazione in hotel, si ritorna alle immancabili uova tra le altre cose minori proposte, in tuk tuk (100b, 10’) raggiungiamo la stazione di partenza della metropolitana di Hualamphong, la stazione ferroviaria principale della città, da cui partiamo con destinazione Chatuchak Park che si trova a 15 fermate di distanza (40b, 45’) per il vastissimo mercato del fine settimana. Alle numerose entrate vien distribuita la guida del mercato, utile per comprendere come muoversi e che settori prediligere, per girarlo tutto, comprese le bancarelle attigue sulle vie limitrofe invase in ogni maniera, non è sufficiente una giornata intera, il mercato è dotato di svariati servizi, bancomat e cambiavalute, servizi igienici, ristoranti e bar di ogni tipo (cucine di tutta l’Asia a confronto, testato un valido kebab da 80b, ma attenzione alle bevande spesso più care del cibo), volendo si può far giornata alla grande, le merci esposte si assomiglino ma è ovvio vista la quantità di prodotti presenti. Il mercato apre alle 9, ma meglio arrivare un po’ dopo perché più negozi aprono in ritardo. Vi è anche una parte più culturale con artisti ad esporre le loro opere, un diversivo interessante nel mezzo dell’ultimo modello Nike (arrivano ad un massimo di circa 40€ ma tutto è trattabile e tanti modelli sono molto più economici) o di una collezione rarissima di All Stars, oppure collanine del mercato equosolidale in presa diretta. Rimane comunque il luogo giusto per far man bassa di souvenir dell’ultimo momento in modo da non appesantire anzitempo lo zaino, ma rimane soprattutto il posto adatto a rifarsi il guardaroba alla moda (anzi, per chi ama questi aspetti, precedendola) con spesa irrisoria. Ovviamente dilatiamo i tempi, rientriamo in metropolitana e da Hualamphong in tuk tuk, solo che la città è paralizzata causa shoutdown, accorciamo i tempi dicendo al conduttore di non fare il solito giro che prevede uno stop ad un negozio di vestiti su misura che gli paga la benzina (e che dimezza la spesa del tuk tuk, in questo caso ci costa 200b invece che 100b) ma comunque è tardi per la nostra partenza per l’aeroporto, nemmeno il tempo per una doccia, giusto quello per prenderci un frullato al Number One (40b) da dove un incaricato dello shuttle TaraTour (100b) ci preleva a piedi per intraprendere un interminabile giro del centro bloccato in ogni dove. Impieghiamo un’ora per circumnavigare la zona attorno a Khaosan Road, usciti da qui il pulmino viaggia ad una velocità interspaziale fino all’aeroporto che raggiungiamo dopo 1:45 in largo anticipo rispetto alla partenza del volo Oman Air al solito puntuale. Espletate velocemente le formalità aeroportuali abbiamo tempo per attendere in relax l’imbarco, e dopo le corse da Chatuchak Park a qui ne abbiamo bisogno, appena decollati inizia la lunga trafila di servizi di bordo che terminano dopo 6:20 quando atterriamo a Muscat.
31° giorno
La sosta questa volta prevede alcune ore, così trovo spazio su di una comoda panchina in luogo nascosto (oltre gli imbarchi dal 21 al 24 dopo le scale in cui scendere a questi) dove schiacciare un pisolo di 2 ore per poi passare al nuovo imbarco verso Milano sempre con volo Oman Air, arriviamo con 7’ di ritardo poiché non si può sorvolare lo spazio aereo siriano e siamo costretti ad una deviazione, ma poco male. E’ prima mattina a Malpensa, sarà anche per questo con pochi voli da scaricare che i bagagli ci vengono riconsegnati velocemente, attesa di pochi minuti per il Malpensa shuttle (10€, 50’) verso la stazione centrale dove arriviamo nel mezzo di una nebbia che si è impadronita della città mentre all’aeroporto ci è stata regalata una bella alba colorata. Poco meno di un’ora di attesa ed un Freccia Rossa in arrivo da Torino parte verso Napoli, così da lasciarci a Bologna (40€, 62’) nell’inverno della nostra città che poi non è nemmeno un inverno così ostico come altre volte, anche se il cielo è coperto, dopo quasi un mese di blu intenso nelle volte del Myanmar è una novità, possibilmente da scacciare quanto prima affondando il dispiacere del rientro in un piatto di fumanti tortellini ma già pronti a programmare il prossimo viaggio, che poi più che programmare significa pensare ad una meta e permearsi dei suoi miti e delle sue storie. Alla prossima
2 note di commento
Il viaggio si è svolto tra dicembre e gennaio, stagione secca, caldo non umido ma freddo decisamente intenso nelle notti in montagna (di giorno ritorna sui 25/28°), zona Lago Inle per intenderci. Tutti i costi riportati sono da intendersi a persona quando non specificato. In Myanmar servivano indicativamente 1.000 kiat per un $ e 1.350k per un €. Tutti i pernotti sono pagabili in $ (causa tasse governative i costi dei pernotti sono mediamente il doppio di Laos e Cambogia), mentre per le spese comuni kyat, il cambio sui 1.000k x $ facilita il tutto. Nonostante quasi tutte le guide di viaggio riportino che non sia possibile prelevare dai bancomat con carte straniere queste ristrettezza è stata sorpassata, non tutti gli ATM operano con carte cirrus/maestro ma si può fare (io non ho avuto problemi), a questo indirizzo vi sono indicati gli sportelli autorizzati :
http://www.mastercard.com/global/atmlocations/index.html
Gli uffici di cambio si trovano ovunque, sia per $ sia per €, i tagli da 100 sono cambiati ad interessi migliori, ma occorre che le carte siano in perfetto stato e per quanto riguarda i $ meglio, se non obbligato, che siano quelle nuove.
I cellulari non hanno copertura poiché non esiste roaming per le compagnie straniere, ma il wi-fi si trova quasi ovunque, anche se la lentezza è imbarazzante soprattutto a nord e l’energia elettrica spesso s’interrompe ponendo così fine alle navigazioni. Si possono comprare schede telefoniche internazionali atte a chiamare all’estero ma non possono ricevere telefonate e messaggi. Per muoversi con motorini a nolo fondamentale procurarsi una mascherina per la polvere, presente in quantità incredibili nei luoghi più remoti, sovente i più affascinanti, ma in più posti non è possibile affittarli, come a Bagan (ristrettezza x stranieri) o a Yangon dove non possono circolare. Con la lingua inglese normalmente si riesce ad interloquire ma nei villaggi diventa più problematico, però anche il semplice frasario presente sulle guide può esser sufficiente e comunque qualche parola in lingua locale farà piacere ed avvicinerà. Il cibo, almeno per chi abituato alla buona tavola, non è sicuramente l’esperienza prioritaria in Myanmar, ma è più vario che in altri stati del sudest asiatico, interessante la mangiata tipica birmana anche se più curry possono risultare troppo forti. A differenza del costo del pernotto, il cibo ha prezzi simili agli stati della zona. Acqua da bere solo e rigorosamente in bottiglia, nessun problema per il ghiaccio, viene tutto prodotto in apposite fabbriche e distribuito ovunque, quindi gustatevi senza timore qualsiasi bevanda, mentre il caffè si trova quasi esclusivamente nella maniera coffee mix, ovvero polvere mista tra caffè, latte e zucchero, ci si abitua, ma non è una prelibatezza. Per entrare occorre esser muniti di visto, da richiedere all’ambasciata a Roma (25€ più spese di spedizioni, 15/20gg tra invii e pratiche), durata 3 mesi ed una volta entrati categorici 28 giorni non rinnovabili, anche se durante il viaggio qualche voce parlava di una sovrattassa di 3$ per ogni giorno in più. Volendo si può richiederlo anche a Bangkok in 2/3 giorni, tempo però che va preventivato in anticipo. Per entrare, fino a settembre 2013 agli stranieri era permesso farlo solo via aerea, in seguito i valichi via terra con la Thailandia son stati aperti e consentono di girare gli stessi luoghi, alcune parti però non sono visitabili come il Chin State (terreno di scontri tra buddhisti e mussulmani ) o raggiungibili ma non via terra come l’estremo nord, il Rakhaing State o Kengtung (triangolo d’oro), dove occorre accedere in aereo o nave. Il sud invece pare visitabile in libertà da pochi mesi. Tutte le principali città o luoghi di interesse sono raggiungibili facilmente coi mezzi pubblici a costi contenuti, più elevati quelli via nave anche se ben più belli, rilassati ed emozionanti. Purtroppo in questo periodo non è possibile risalire l’Ayeyarwady (chiamato così in Myanmar mentre per il resto del mondo è l’Irrawaddy) da Mandalay a Myityina perché le acque son troppo basse.
I luoghi di culto buddhisti son visitabili solo scalzi, attenzione perché la sporcizia regna sovrana, oltre a rifiuti di ogni genere buttati alla belle meglio, vedrete strade e percorsi coperti di rosso, causa i continui sputi dettati dal prodotto delle foglie di betel succhiate col ginger al proprio interno, la droga nazionale di cui nessuno riesce a far senza, come facile comprendere vedendo un numero infinito di camion che trasportano queste foglie.
In Thailandia un € corrisponde indicativamente a 44bath, un $ a quasi 32b.