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Eritrea


Nella foto, Asmara, vecchia sede della FIAT Tagliero

2 note di commento

Il viaggio si è svolto alla fine dell’anno, stagione secca, temperature buone, mai una nuvola. Ovviamente in capitale di sera/notte, data l’altitudine (2.350m) occorre un pile se non un k-way nelle nottate ventose, lo sbalzo termico è elevato, situazione che non si ripete già a 1.500m di altitudine, ovviamente diversa la situazione nei paraggi del mare. Sulle isole il caldo è elevato di giorno, ma di notte si dorme senza problemi nelle tende, che sono improponibili di giorno.

Per entrare in Eritrea occorre il passaporto valido per 6 mesi ed il visto che va richiesto almeno 20 giorni lavorativi prima all’ambasciata a Roma. In realtà questa documentazione serve a muoversi in capitale, per uscire occorre un permesso per ogni località toccata da recuperare al ministero del turismo il giorno innanzi (se intendete partire di lunedì sappiate che la domenica il ministero è chiuso e non si potrà partire di prima mattina), per evitare perdite di tempo ci siamo affidati all’agenzia Erinine che ha svolto le pratiche e fornito servizio trasporto con guida, così da toccare più luoghi e popolazioni, fuori dalla capitale non è semplice trovare interlocutori che comprendano lingue occidentali con cui interagire.

Il roaming internazionale non esiste, quindi i cellulari non funzionano, la rete EriTel è accessibile solo agli eritrei o agli stranieri residenti. Il wi-fi si può trovare in alcuni alberghi (quasi tutti in capitale) e in qualche internet caffè, ma la connessione quando c’è è lentissima, ondivaga e non tutti i siti sono accessibili. Ovviamente all’arcipelago delle Dahlak non esiste nulla, in quei giorni non c’è maniera di restare in collegamento con nessuno, per urgenze potete chiedere al barcaiolo.

Occorre pagare in moneta locale, il cambio è governativo, quindi non c’è differenza tra cambiare in banca, allo sportello dell’aeroporto di Asmara o in un ufficio Western Union nel centro della capitale, il tasso può variare giornalmente con differenze esigue, al momento era 1€=17,19 Nakfa, 1$=15 Nakfa. I prezzi che riporto di seguito sono da intendersi a persona quando non specificato. Le carte di credito, a parte qualche rarissimo hotel, inutilizzabili. I prezzi nei mercati sono trattabili ma non c’è quella consuetudine tipica sudamericana, la benzina costa 300n al lt, cifra folle per l’Eritrea, ed in effetti le auto private sono rarissime, lungo le strade fuori dalle città principali il traffico consta di biciclette, animali, bus o minivan di servizio pubblico e carretti trainati da cavallo/asino, in città questi targati. Il gasolio è di difficile reperibilità, l’autista del nostro minivan se lo procurava ai mercati con passaggi molteplici di piccole taniche, immancabili, e utilizzate per qualsiasi liquido.

Il turismo, nonostante gli accordi di pace definitivi (si spera) di settembre è ancora una goccia nel mare, quasi solo italiano, lingua con la quale si può intentare un minimo di conversazione, più per far amicizia che per altro. Nel centro di Asmara alcuni giovani lo parlano, così come qualche anziano, questi per ricordi “casalinghi” dell’epoca italiana, i primi permettendoselo studiano a scuole italiane, altri a quelle inglese, ed in quel caso parlano l’idioma. Uscendo da Asmara tutto diviene molto più complesso, un saluto italiano ci sta, ma poco oltre. A differenza dell’Etiopia qui il ricordo italiano è ancora positivo, quindi una parola fa piacere. Non c’è una vera e propria lingua ufficiale, anche se il tigrino ha preso il posto dell’amarico al momento dell’indipendenza dall’Eritrea, a nord è diffuso il tigrè (da non confondere col tigrino), ma ognuna delle sei provincie riconosciute ha un suo linguaggio, anzi di più, sono 9 quelli maggiormente usati. L’unica che permetterebbe a tutti di dialogare congiunti sarebbe appunto l’amarico parlato a lungo, ma essendo quella etiope era ed è severamente vietata in pubblico. I nomi dei luoghi possono essere riportati in modi diversi causa la traslitterazione, va prestata attenzione.

L’ora è +2GMT, ma molto legata alla luce del sole, quindi di mattina presto c’è vita, al calare del sole si ferma quasi tutto, rammentatelo soprattutto per l’orario di cena, fuori dalla capitale dopo le 20 sarà difficile trovare un pasto.

La sicurezza generale è elevata, forse l’unico aspetto positivo che garantisce la dittatura, perché se l’accordo di pace è stato firmato, l’Etiopia è una democrazia in forte espansione, l’Eritrea rimane una dittatura tenuta a pugno duro dalla stessa persona che la comanda dal giorno dell’indipendenza, per gli stranieri l’area a nord del Tigray e quella a sud della Dancalia non sono ancora accessibili, ogni spostamento è registrato, altre zone come Adulis raggiungibili solo con un funzionario governativo. Esiste un solo canale televisivo, ma chi può ha il satellite, il servizio militare è obbligatorio per tutti, terminato l’addestramento di oltre un anno si rimane a disposizione dei militari fino a data non prestabilita (40-45 anni), senza possibilità di avere il passaporto (anche per le donne, che escono da questa situazione se si sposano o hanno un figlio), ora si può andare in Etiopia perché i confini son stati aperti, ma durante la mia permanenza per cause non specificate son stati chiusi per 4 giorni.

Guide, al momento non esiste una guida aggiornata dell’Eritrea, si è fatto riferimento all’ultima edizione della Lonely Planet che metteva assieme Etiopia, Eritrea e Gibuti del 2010 (e devo dire che nulla è cambiato, pure i ristoranti collimano ancora, incredibile) oppure la Polaris del 2004, con ottime descrizioni di luoghi d’arte e popolazioni ma poco pratica per organizzarsi gli spostamenti.

Asmara, mercato Medebar

1° giorno

All’aeroporto di Bologna la fila per il check-in della Turkish Airlines è veloce, più lunga la fila di chi ha fatto il check-in on line e deve consegnare il bagaglio, recupero le carte d’imbarco fino ad Asmara. Pure i controlli sono veloci, gusto il volo tarda, in 2:40 arrivo a Istanbul (servito un buon pranzo, niente schermo a disposizione e niente possibili ricariche di batterie) dove vado direttamente al gate del volo per Asmara senza più nessun controllo. Va solo vistata nuovamente la carta d’imbarco prima del gate mostrando passaporto e visto. Volo puntuale, durata poco oltre le 4h, a disposizione uno schermo personale con vari intrattenimenti o possibilità di utilizzare i propri con l’ingresso usb. Servita una buona cena ed arrivo puntuale in piena notte in un aeroporto che pare un minuscolo scalo di provincia. 2 file per registrarsi, nonostante quella degli stranieri sia corta il tempo per ognuno è lungo, tante procedure, unica nota, a nessuno è richiesto il libretto sanitario che attesti la vaccinazione alla febbre gialla, indicata obbligatoria. Terminata la registrazione con concessione di una permanenza di 90 giorni, si ritira il bagaglio già sceso dai nastri (di tempo ne hanno avuto…), lo si passa ai raggi X e finalmente si può uscire. C’è però possibilità di cambiare valuta, anche se le scorte di nakfa sono limitate, quindi solo una piccola parte di € si può qui cambiare. Da segnalare che quest’ufficio è accessibile solo quando si esce, in arrivo no, quindi non pensate di cambiare i nakfa rimasti (che sarebbe reato far uscire dal paese) quando si riparte. Dopo un’attesa di circa un’ora (il volo Turkish ha cambiato orario di arrivo da pochi giorni) gli addetti dell’agenzia Erinine ci passano a recuperare con un minivan che diverrà il nostro mezzo di trasporto per tutto il viaggio, guasti meccanici compresi. Qualche taxi si avvista all’uscita, va tenuto conto che l’aeroporto apre solo in concomitanza dei pochi voli in programma, alla nostra uscita chiude immediatamente, non ci sono sale d’attesa in quel caso, si aspetta all’aperto, e in piena notte nel vuoto della campagna la temperatura non è amichevole. Arriviamo a notte fonda a destinazione presso il Savanna Hotel, rimediato all’ultimo, la precedente prenotazione presso l’hotel Ambassador l’abbiamo dovuta cambiare perché il governo, senza una specifica ragione, ha chiuso l’hotel, pratica per la quale non c’è da stupirsi. Non centralissimo (20’ a piedi dalla cattedrale) è però un’ottima struttura che a spizzichi e bocconi offre pure il wi-fi con codice che cambia ogni 4 ore, ma una volta agganciato a quello della camera ha una durata maggiore. Una doppia costa 600n anche ad uso singolo, camere grandi con salotto di età indefinita, acqua calda sempre disponibile ma non colazione come in realtà avevamo definito, questo però lo impariamo solo l’indomani.

Adi Quala, all'interno della chiesa Damba Enda Slassie


2° giorno

Colazione in hotel (100n) ma solo perché ritenevamo fosse compresa, per quel prezzo è un furto, data anche la qualità non indimenticabile. Oggi visita città, ed essendo vicina la vecchia sede della Fiat Tagliero, nella parte a sud di Sematat Ave. iniziamo da lì, la costruzione più iconografica del paese, rappresentata nei pochi souvenir reperibili, vedi il negozio di abbigliamento Dolce Vita in pieno centro, il più trend del paese. Vecchia stazione di vendita Fiat a forma di aereo, è oggi in disuso, a fianco la costruzione Irga (Industria Riparazione Gomme Asmara), come capiamo fin da subito i ricordi italiani connotano il luogo, non solo in capitale ma in pratica in tutto il paese. Risalendo Semetat, schivando i ciclisti che la percorrono ad anello durante una gara ciclistica, si passa davanti al cinema Roma che ora funge sia da cinema sia da sala di proiezione di eventi sportivi, ma il cui bel bar abbellito da una vecchia macchina da proiezione è sede di ritrovo di molti abitanti. Tra le costruzioni che contraddistinguo il grande viale anche quella tondeggiante con finestre ad oblò in cui si trova il bar Zilli, all’epoca posto molto frequentato, ora non come il Roma. Propria a fianco del Roma si taglia per un percorso interno che porta ad alcune residenze prestigiose in una piccola collina, tra le quali l’Hamasien Hotel che pare uscire dai boschi tedeschi e Villa Roma, residenza dell’ambasciatore italiano. Prendendo a nord si giunge in Harnet Ave., la via principale, quasi di fronte all’imponente cattedrale cattolica, all’interno della quale sorge un istituto teologico ed un bel campo da basket. Prendiamo a est per giungere in una specie di anfiteatro naturale cinto da imponenti gradinate nel lato nord, Bahti Meskerem Sq., luogo adatto alle grandi adunate governative dove facciamo conoscenza coi caratteristici bus rossi, che più che rossi danno l’idea di essere interamente arrugginiti. Da qui, risalando ancora verso nord solo 2 quadre si giunge nel grande spiazzo in salita della cattedrale copta ortodossa Enda Mariam, con le caratteristiche enormi pietre che fungono da campane. Nei paraggi si gioca a dama sfruttando i tappi della birra, la bevanda per eccellenza dell’Eritrea, alcune marche sono ancora prodotte da famiglie italiane, ora però si trovano anche quelle etiopi. Rientrando verso il centro attraversiamo la zona del mercato, oggi in larga parte chiuso perché domenica, a parte la zona del cibo, che vedremo dopo il passaggio alla moschea Kufhala al-Rashidun. Ci dicono che sia visitabile, così entriamo, niente di particolare, poi siamo avvicinati per chiedere spiegazioni della nostra presenza, quando spieghiamo che siamo entrati su indicazione di una determinata persona la discussione si sposta tra questi. Il mercato del pesce è chiuso, nei dintorni sorge anche la Sinagoga di Asmara, ma non trovando un accesso aperto evitiamo di creare problemi come nella moschea. Indubbiamente una grande integrazione, in un kmq si trovano tutte le fedi religiose (ci sarebbe anche la greca-ortodossa che non avviciniamo) e nessun problema, dato l’orario il problema di una sosta e di rifocillarsi non esiste, bar e pasticcerie sono ovunque (meno i ristoranti, difficilmente gli eritrei mangiano fuori, per motivi economici soprattutto) e ci fermiamo al City Cake Cafè che tra le varie cose serve splendidi makiato (21n x acqua, pizzetta e caffè). Sempre lungo Harnet sorge il cinema Impero, contraddistinto dalle solite finestre ad oblò, ancora operativo e con all’interno un piccolo caffè, facciamo tappa anche al teatro dell’opera, sito sopra ad una scalinata in bella posizione, con le arcate esterne che fungono pure qui da caffè letterario e da wi-fi point. Per visitarlo però ci dicono di ripassare l’indomani quando il gestore dovrebbe essere presente. Quasi di fronte si trova un Western Union dove velocemente si possono cambiare soldi in nakfa, necessario il passaporto o una scansione (anche su smartphone), qui non ci sono importi limite, ma evitate di cambiare cifre elevate, non potendo portarli fuori e faticando assai a riconvertirli in € o $ meglio essere sempre misurati. Lentamente, percorrendo la parte finale di Harnet e quella nord di Sematat rientriamo in hotel per definire alcuni aspetti del viaggio con la responsabile dell’agenzia. Poiché oggi, domenica, non ci hanno rilasciato i permessi per la prima uscita da Asmara, cambiamo il programma che avevamo pensato, resteremo in capitale anche l’indomani, evitando di perdere tutta la mattinata nell’attesa dei permessi, rifacciamo il piano che verte attorno alla disponibilità della barca per raggiungere l’arcipelago delle Dahlak. Riusciamo a far combaciare tutto quello che avevamo previsto, o almeno così dovrebbe essere, perdendo giusto il mercato del lunedì dei dromedari a Keren. Doccia calda, e qui vista la temperatura che si prospetta di sera e quella nella hall dell’hotel è un bell’andare. Per cena, poiché i ristoranti non è che siano tanti, seguiamo un’indicazione di alcuni locali e andiamo, trovandolo pure sulla LP, al Sicomoro (140n), non distante dalla Fiat Tagliero. Il ristorante era stato chiuso alcuni anni fa dal governo, ma poi ha riaperto, si trova al primo piano di un grande stabile, ha una scelta molto ampia di piatti e stranamente tutto disponibile, avendo a che fare con stranieri sono loro a chiedere per ogni piatto se lo si vuole piccante alla loro maniera o meno, e tutti i piatti con injera, se così accompagnati o col pane. A differenza dell’Etiopia i piatti all’italiana si trovano con facilità, la pizza è quasi una tradizione e ci viene servita come antipasto gentilmente offerto, mangiabile. All’uscita fa freddo, soprattutto il vento si sente, l’escursione termica è di oltre 20°. Rientriamo camminando tranquillamente in una città serena dove le strade sono piene di pedoni e ciclisti, quasi che i motori siano banditi.

In viaggio, dal finestrino


3° giorno

Colazione all’Asmara Sweet Caffè (32n) con ottime paste e splendidi e squisiti caffè o makiati, proprio di fronte alla cattedrale cattolica che oggi visitiamo a fondo durante le prove dei bambini per la rappresentazione natalizia, durante la quale tutti parlano italiano. La meta è il mercato centrale che raggiungiamo dopo aver attraversato il mercato del pesce (piccolo e quasi interamente vuoto), che si svolge sia tra i capannoni coperti nelle vie tra Eritrea e Adi Quala, ma anche sui marciapiedi. In questi ultimi robivecchi principalmente, ma anche ogni sorta di oggetti da noi ormai dimenticati, volendo si trovano “ricambi” per qualsiasi prodotto obsoleto, nei capannoni invece dall’abbigliamento ai prodotti lavorati in vimini, ma in realtà nulla di particolare. La vera chicca di Asmara è il mercato Medebar, più a nord-ovest all’interno di un antico caravan serraglio. 4 vie fuori dal centro e ci si trova in un mondo arcaico, la gente si muove chiedendo un passaggio su carretto targato trainato da cavallo o asino, una volta entrati lo spettacolo è incredibile. Subito si viene avvolti dagli effluvi del peperoncino che decine di donne pestano assieme ad altre spezie, si battono i cereali e si portano alle poche macchine collettive per setacciarli, in una specie di grande comune dove ognuno contribuisce al bene collettivo. Coloratissimo e a suo modo festoso, la parte posteriore invece è l’arte della lavorazione e ripresa della lamiera. Qui nulla si butta, anche l’ondulato sottocoppo ha un suo riutilizzo, spianato e tagliato a dovere prende forma per la base di un fornello tipico, sul quale di norma è messo ad tostare il caffè assieme al mais per il pop-corn, il caffè è un rito irrinunciabile, sempre che abbiate il tempo per la lunga procedura. Si salda qualsiasi cosa, le norme di sicurezza non esistono, si aggiustano scarpe che paiono impossibili da sistemare, in generale è una dei mercati più affascinanti che abbia mai girato, anche se in realtà non c’è nulla da comprare per un viaggiatore, se non una scorta di peperoncino in formato maxi. Rientrando nella modernità della capitale ci imbattiamo come ieri nel City Cake Caffè e tanto vale fermarci per una sosta poco dopo mezzodì (21n), percorrendo Harnet ripassiamo dal teatro dell’opera e dopo lunga conversazione col gestore (che ovviamente sfoggia un italiano impeccabile) riusciamo a visitarlo, prima però bevendo un tè caldo in sua compagnia col solo impegno di far passare il tempo senza faticare. Entriamo dal retro approdando direttamente in palcoscenico, struttura che come quasi tutto qui data 1920, mantiene sedie di legno in pessime condizioni ma un fascino antico che sa di storie e leggende. Ora è lui che non ci farebbe più andar via, ringraziamo e prendiamo la via limitrofa per passare dall’ex cinema Odeon, struttura in non buone condizioni ed in effetti ora chiusa. Rientriamo in hotel attraversando la zona “dei villini”, una sorta di area bene della capitale, un intreccio di strade che ci permette di arrivare dal lato opposto rispetto alla via principale, passando da una piazza all’incrocio tra Dogali e Fred Hollows dedicata all’Alfa Romeo, con quelle costruzioni tipiche tondeggianti e finestre ad oblò che fanno tanto anni ’20 e colonia. Per cena, su consiglio della proprietaria dell’agenzia, andiamo presso un’abitazione privata, da Asmareh (200n + bere), per una cena oltre che abbondante. L’energia elettrica va e viene, ma nessun problema, i cinesi hanno rifornito gli abitanti di lampade da inserire nei lampadari che alla mancanza dell’energia elettrica funzionano ugualmente in emergenza, meno luce ma niente buio, questo anche per svariate ore, verificheremo in seguito che non esiste mercato che ne sia sprovvisto. Per raggiungere la casa, la signora ci accompagna in auto, è fuori dal centro ma soprattutto in un toboga di viuzze indecifrabile, al buio totale e su sterrato. Al termine, satolli, ci facciamo accompagnare in centro città, per chi vuole c’è la messa di Natale, prima quella inglese a seguire quella italiana, per chi preferisce gustarsi la “vasca” degli eritrei si può girare la via principale come fanno la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze di Asmara, ai quali scambiare 2 chiacchiere con uno straniero fa un gran piacere, anche se avranno comunque timore a parlare della situazione del paese dopo poche parole con uno sconosciuto che potrebbe metterli in difficoltà. Italiano o inglese, i giovani in pieno centro parlano senza grandi problemi, se volete interagire senza intermediari occorre farlo qui, fuori dalla capitale senza l’apporto della guida è raro che accada.

Al mercato di Foro


4° giorno

Pessima colazione da Massawa Fast Food (28n), buono giusto il makiato poi partenza col minivan destinazione Adi Quala vicino al confine con l’Etiopia, luogo ora raggiungibile con permesso sia per gli stranieri (ottenibile al ministero del turismo) sia per il mezzo (a quello ci ha pensato l’autista, va convalidato ad un terminal dei bus in uscita). Lungo il cammino sosta a Dbarwa presso alcune costruzioni italiane di pregio, sulla strada asfaltata ma in pessime condizioni quasi solo ciclisti in tenuta da uscita d’allenamento festivo, strada pianeggiate in un falsopiano sempre oltre quota 2.000m. Passato Mendefera peggiora ancora e all’arrivo ad Adi Quala (circa 3h) condividiamo la via solo con gente a piedi, qualche carretto e vari animali. Proviamo a recuperare subito i permessi per andare oltre, ma l’addetto non è presente, facciamo tappa alla chiesa copta di Damba Enda Slassie, costruita a forma di tipico tukul, banale all’estero, preziosissima all’interno. Entrati (occorre lasciare le scarpe fuori, ma si cammina su comodi tappeti) il monaco che fa da custode ci illustra le infinite decorazioni protette da leggeri teli. Molte di queste rappresentano la storia dell’Eritrea, le sue guerre e le sue invasioni, alcune raffiguranti le vicende italiane di guerra nella vicina Etiopia. Gentile e disponibile ci tiene a presentarci ogni aspetto della chiesa, evidentemente ben pochi avventori passano da qui, del resto l’area è stata aperta agli stranieri da poco. Usciti (va lasciata una mancia al monaco, un € indicativo a persona) giriamo e rigiriamo per il paese alla ricerca dell’addetto ai permessi, dopo oltre 45’ lo rintracciamo e possiamo proseguire in direzione del cimitero e mausoleo italiano di Mekaber. Usciti da Adi Quala si prende una via di campagna e subito ci imbattiamo in un gruppo di persone che lavora nei campi, tutto rigorosamente a mano, aiutati solo da una coppia di buoi per battere i cereali. Sembra una scena uscita da un documentario di 2 secoli fa, invece tutto vero, cordiali e gentili ci intratteniamo con loro per comprendere le dinamiche di come ancora si lavora la terra da queste parti, e poco oltre come recuperare l’acqua da un pozzo lontano da tutto dove i bambini vanno coi somari a far scorta di acqua da riportare nei villaggi limitrofi. Da qui risaliamo la montagna a piedi (30’) per arrivare al mausoleo incrociando un minuscolo villaggio abitato al momento solo da donne, gli uomini sono nei campi al lavoro (volendo si può comprare acqua in bottigliette). Poco oltre sorge il mausoleo, al culmine della montagna sulla valle sottostante che porta al confine con l’Etiopia. La vista spazia lontano su di un territorio che fino a pochi mesi fa era militarizzato ed invalicabile, il mausoleo ed ossario è in ricordo degli italiani caduti nella battaglia di Adua del 1896. Largo spazio ad ufficiali, ben poco ai soldati coscritti quaggiù, a combattere contro popolazioni che nulla di male avevano fatto se non vivere a casa loro. Al di là del monumento merita la vista in se, poi coloro che proprio non riescono a vivere sconnessi potranno pure ricollegarsi col mondo poiché qui il roaming funziona grazie alla connessione etiope (mi è stato riferito, non ho provato, da verificare). Scendiamo dalla montagna per fare nuovamente tappa al pozzo, sempre preso d’assalto da “carovane” di asini con otri realizzati con vecchie camere d’aria, il ritorno ad Adi Quala è veloce, si ripassa dall’addetto ai permessi in un cammino che in città c’è già familiare, mirando e rimirando più volte la vecchia stazione di rifornimento ora Tamoil di chiara architettura italiana. Sulla strada del ritorno sosta a Mendefera da Dembe (47n) x rapido spuntino poi una volta giunti ad Asmara la guida non vuole farci perdere il cimitero italiano posto in zona ovest, non distante dalla chiesa Kiddus Michael. In fatto di cimiteri non ci fanno mancare nulla, qui giungiamo in pieno tramonto e gli scorci regalano immagini evocative. Rientrati in hotel usciamo a cena più tardi delle serate precedenti, optiamo per il ristorante Kateja (170n), anche questo consigliato tra quelli non troppo lontani dall’hotel, proprio in una laterale del Fiat Tagliero, nemmeno un’insegna ma posto nuovo per una cucina più moderna dello standard, sfoggiano anche tagliatelle al ragù dove tutto è perfetto, non fosse che l’abbondanza di peperoncino rende il piatto inaffrontabile.

Arcipelago delle Dahlak, isola di Dahlak Kebir


5° giorno

Colazione all’Asmara Sweet Caffè (32n) con meno paste di 2 giorni prima e soprattutto inservienti senza più il cappello da babbo natale, poi giro al mercato per procurarci i generi alimentari freschi (frutta, verdura e pane) da consumare alle Dahlak. Terminata questa incombenza (x l’acqua ci adopereremo a Massawa) è tempo di partire, la discesa ci attende. Già, in circa 100km si scende dai 2.350m di Asmara al mare, la prima parte del percorso è la più spettacolare, lasciata la città ed i suoi cimiteri rievocativi (nel lato est sorge quello inglese) si aggirano i grandi pendii lungo una strada non male rispetto a quella del giorno prima, sovente incrociando i binari della ferrovia costruita da Massawa ad Asmara dagli italiani, ora non più funzionante. Il percorso che si può compiere con un vecchio treno a vapore per turisti termina a Nefasit, già scesi di oltre 700m. Il clima già cambia, caldo molto più intenso, tra le montagne a sud-est prima della discesa tra i tanti tornanti che conducono a Nefasit si può scorgere il monastero di Debre Bizen, incastonato in luogo non facilmente accessibile (circa 2h a piedi), unico dell’Eritrea dove non è consentito l’accesso al mondo femminile, animali compresi. Tra una foto di un panorama e quella alle genti che percorrono rigorosamente a piedi la strada giungiamo dopo quasi 2h oltre Ghinda e facciamo sosta al Semhar Rist, costruito pure lui a forma di tukul. Da qui dista poco il fiume Dessèt celebre per 2 cose, il memoriale della battaglia di Dogali ed il ponte sul fiume stesso. Il primo commemora i caduti italiani della battaglia qui svolta nel 1.887 con gli abitanti del luogo di ras Alula, il secondo è il celebre ponte contraddistinto dalla frase in torinese “custa lon ca custa” (costi quel che costi) riferita all’acquisto della baia di Assab da parte degli italiani per prendere il controllo della situazione sul Corno d’Africa, baia situata nel sud dell’Eritrea al confine con Gibuti, luogo non aperto agli stranieri al momento. Passato il ponte si attraversa un’area desertica che un tempo faceva da base all’aeroporto internazionale di Massawa, ora non più operativo. Massawa era la perla abissina sul mare ma la storia l’ha lasciata in drammatiche condizioni. Città ad impronta araba, anzi yemenita, vista la sua posizione è stata ripetutamente bombardata durante la guerra d’indipendenza ed ora versa ancora in condizioni di decadenza, nulla è stato ristrutturato della parte storica sulle 2 isole raggiungibile lungo ponti su terrapieni. La parte sulla terraferma è costituita da ruderi pre-indipendenza e quartieri costruiti di recente, uno da imprese coreane, un altro da imprese cinesi, quelle che si combattono lo sfruttamento del sottosuolo, entrambi anonimi e poco abitati. L’ingresso all’isola Taulud avviene in corrispondenza della piazza con la cattedrale di Santa Maria e 3 carrarmati recuperati agli etiopi in bella mostra. Quest’isola, meno caratteristica della seconda, ovvero Massawa, giace in stato di decadenza ed abbandono, qualche hotel per i pochi viandanti, anche questi in totale decadenza. Facciamo tappa al Central Hotel (600n per camera doppia, acqua fredda quando c’è, niente acqua corrente nella tazza, niente colazione, energia elettrica non in tutte le camere, ventilatore e zanzariera) dove ogni volta che si richiede la chiave della camera occorre firmare il registro. La carta igienica arriva giusto in un secondo tempo e dopo svariate richieste ed è sotto forma di fazzoletti di carta, per avere gli asciugamani è un’attesa infinita, almeno c’è un campo da basket, ma non c’è il pallone e nessuno che giochi. A suo favore invece la bella posizione sul mare e la vista sull’isola Massawa che all’alba e al tramonto regala immagini da cartolina. Facciamo il punto riempiendo innumerevoli scartoffie per l’accesso al parco delle isole Dahlak (ingresso al parco 25$ per 3 giorni + 5$ a giorno aggiuntivo, pagamento solo in $ contanti emessi dopo il 2.007) e per ritirare il permesso dell’indomani per andare al sito pre aksumita di Adulis imparando che il permesso per Ghela’elo (ingresso in Dancalia) non c’è stato concesso ed ovviamente qui non si può chiedere più nulla a nessuno. Poco prima del tramonto, a piedi iniziamo a visitare l’isola di Massawa, scontato dire che calato il sole non si veda più nulla, a parte poche e rare insegne di negozi il buio è totale, ma quel poco che si riesce a vedere ha un grande fascino anche se la città è praticamente deserta. Dopo aver preso indicazioni in alcuni negozi su costi e disponibilità di taniche per l’acqua che utilizzeremo alle isole per preparazione del cibo (più si entra in città e più il prezzo diminuisce) e bottiglie d’acqua da bere (circa 3 litri a testa al giorno, ma volendo anche con 2 si sarebbe fatto non essendoci un caldo infernale, soprattutto di notte) optiamo per la cena in un ristorante nella zona centrale consigliato anche dalla LP ben dal 2006…Sellam. In pratica sotto ad una tettoia ci sono tavoli sulla terra, all’interno vari tipo di pesce, una portata di 2 costa 120n, lasciamo fare agli addetti (parlano solo la loro lingua) che li servono ben grigliati da mangiare con le mani assieme a del chapati, altro non c’è. Il pesce è squisito, le bibite le forniscono la birra no (sono musulmani) ma se la portate da fuori non si fanno nessun problema. Al termine ci servono chapati al miele, spesa complessiva 140n. La strada all’ingresso dell’isola che da sul porto interno è l’unica con un briciolo di vita, un susseguirsi di localini sotto a costruzioni di corallo, luogo ideale per il rito del caffè che non va nemmeno ordinato, terminata la lunga preparazione viene servito agli avventori gratuitamente assieme ai popcorn, devo dire delizioso. Tra i 4/5 caffè pressoché identici abbiamo fatto tappa da Portico’s, che oltre a caffè e tè serve ogni tipo di bibita, birra compresa, che è la bevanda più richiesta dai pochi eritrei che stanziano qui, volendo anche etiope. Dopo il caldo del giorno la temperatura è gradevole, molto meno le condizioni dell’hotel, se ho il privilegio di una doccia quasi funzionante (fresca ma non fredda), la tazza è in condizioni di basso profilo e dal rubinetto del lavandino cade una goccia d’acqua ogni anno. Confrontandomi con altri avventori devo quasi ritenermi fortunato data la condizione da VIP della doccia. Asmara dista dalle isole di Massawa circa 110km, percorribili in circa 3h se non si effettuano soste.

Una pausa a Keren


6° giorno

Abbondante colazione al Cafè Seghen (45n) poi col minivan recuperiamo la guida governativa (parla inglese, non italiano, il costo è compreso in quello trattato con l’agenzia) all’ufficio del turismo e passiamo per convalidare il permesso al terminal, nella parte interna della città, in pessime condizioni. Partiamo percorrendo la strada costiera P6, asfalto buono ma strada mancante in corrispondenza dei fiumi che s’incontrato, in questo momento senza una goccia d’acqua, ma occorre aggirare il percorso. Si passa dal monumento in ricordo della strage di Hirgigo, dove 350 eritrei furono massacrati dagli etiopi negli anni ’70, poi da lì si continua fino al paese di Foro incontrando i primi insediamenti afar, gli abitanti della remota e terribile Dancalia. A Foro si lascia la via maestra (che comunque in alcuni tratti è già in pessime condizioni, il viaggio fino ad Assab, accessibile solo agli eritrei, dura almeno 8 ore) per deviare verso il mare, meta odierna è Adulis, l’antica città pre aksumita che faceva da tappa di accesso ed uscita di tutte le merci di quell’importante civiltà, dalle montagne alla penisola arabica. Trovare l’accesso non è facile, nessuna indicazione, ci si muove nel mezzo del deserto dovendo lasciare le tracce principali perché alcune spaccature del terreno non ci permettono di seguirle. In qualche modo giungiamo al nulla costituito da 2 container, una tenda che protegge un generatore ed una rete che funge da letto per un custode che chissà qualche cattiveria avrà fatto nei confronti del regime per essere stato messo qui. A piedi si prosegue alla ricerca delle rovine, solo il 2% del territorio è stato scavato, in pratica a parte qualche affioramento minimo solo 2 corpi della città sono visibili. Il vero valore è averne trovata l’esistenza, non tanto quello che si vede, anche se queste 2 parti sono ben tenute e con le spiegazioni della guida (va lasciata una mancia, l’equivalente di un € a persona pare sia la cifra giusta) sulle 3 chiese esistenti ce ne facciamo un’idea interessante. Ovvio che i resti d’edifici costruiti oltre 6.000 anni fa in luoghi che hanno vissuto guerre non indifferenti non possono certo versare in perfette condizioni, ma saranno utili per comprendere le forme architettoniche che vedremo in seguito nell’altopiano. Mentre 2 abitanti del luogo caricano all’impossibile un dromedario di arbusti, questi urla a più non posso, forse urla per aver visto un assembramento di gente in un luogo del genere, dove causa rottura del minivan rimaniamo a lungo, prima all’ombra dell’unico esile albero di una certa dimensione, in seguito sotto al sole nella speranza che i soccorsi ci avvistino. Fortuna che i cellulari dei locali funzionano, riescono a contattare un autista che col suo mezzo, dopo innumerevoli svolte nel deserto ci avvista, non solo ci recupera ma riesce pure a trainare il nostro mezzo fino a Foro, con svariate rotture della corda di traino. Poiché a Ghela’elo non possiamo andare, ne approfittiamo per girarci Foro ed il suo animatissimo mercato frequentato da popolazione locale di fede islamica, assolutamente differente dall’altopiano. Non capiamo se sia altamente caratteristico per noi o se noi lo siamo per loro, fatto sta che la loro curiosità ci permette di fraternizzare e dopo un’ora avanti ed indietro per i 500m del mercato lungo la strada principale sotto ad un sole alla Dan Peterson (non spacca le pietre perché le case son fatte più di legno e lamiera…) sosta per un te caldo e ristoratore da Do Nueys (3n) o per chi ha tempo per un caffè. Preso atto che il nostro minivan necessiterà di cure, la guida tratta con i soccorritori il passaggio per Massawa (70’) così da arrivare in tempo utile per vederci la fascinosa città ben prima del tramonto. Massawa merita una visita approfondita, certo, tutto è ancora deturpato da bombe e decadente, ma il fascino che emana perlustrando vie e piazze è incredibile, tra terrazzini di legno in stile turco e piazza con minuscoli locali dove incontrare una popolazione che un sorriso o un caffè lo regala senza pretendere nulla in cambio. Perla dell’isola la splendida casa di Mammub Mohammed Nahari colpita più volte da bombe ma ancora capace di ammaliare. Le case di corallo impressionano per la finezza e per lo splendore anche in un contesto malconcio, gli anziani nella piazza a chiacchierare e ber caffè appena sentono una voce italiana hanno piacere di conversare e qui nemmeno i bambini son timorosi, anzi i più vogliono essere fotografati, ovviamente col loro smartphone. Per evitare di ritornare in albergo all’isola Taulud e cercare un luogo per cenare lì dove nel deserto e nell’abbandono ci sono solo hotel, rimaniamo direttamente sull’isola Massawa dove sistemiamo gli acquisti dell’acqua che ritirerà un addetto per portarcela direttamente all’imbarco assieme all’acqua per cucinare ottenuta dopo lunga discussione onde evitare di pagare le taniche. A quel punto è già tempo di cena, nella parte iniziale di fronte al porto interno ci sono i soliti locali e giusto per una questione d’illuminazione optiamo per Seghen (155n) anche se la cena non è così soddisfacente. Assisto però al rito completo del caffè, compresa l’invasione di popcorn, caffè sì ricchissimo. Al rientro la solita camera scalcagnata con doccia fresca e bagno in pessime condizioni.

Massawa, casa di Mammub Mohammed Nahari


7° giorno

In hotel i prezzi sono assurdi, giusto un te (10n) visto che avremo tempo di rifocillarci a dovere sulle isole. Partenza alle 10 su di una barca adatta per più di 10 persone dove oltre a sistemare zaini, cibo e acqua carichiamo anche 2 grandi casse di polistirolo colme di ghiaccio che ci faranno da frigorifero durante la permanenza nell’arcipelago delle Dahlak. Va tutto sistemato a dovere per evitare problemi in navigazione, usciamo dal porto dirigendoci ad un faro dove dopo lunga attesa si palesa un addetto che ritira i nostri permessi e ci da l’OK a partire. La traversata dura indicativamente 90’, dopo i quali avvistiamo una striscia di terra in mezzo ad un acquario, una di quelle visioni sovente scambiate per il paradiso. Nessuno di noi è un vero amante del mare, preoccupa un po’ l’idea di un’isola dove c’è poco da fare poiché piatta e non molto estesa, ma la prima vista è positiva, avendo deciso di far base sulla stessa isola le tende sono già montate, sono alte da poterci stare in piedi all’interno, ci sono le brandine per dormire e chicca unica, una coppia inglese con cui condivideremo l’isola di Dur Gaam per una sola notte ci lascia pure la doccia da campo. Già, qui non c’è nulla, occorre portarsi ogni cosa, una doccia all’interno di un piccolo capanno portatile è un lusso inatteso, acqua ne abbiamo e quindi avremo pure un confort in più rispetto all’attesa. Inutile dire che i “servizi igienici” sono nella natura, arbusti bassi, quindi un minimo occorre spostarsi. Il cuoco ed un suo addetto hanno pure edificato una struttura protetta dal vento e dal sole per la loro cucina ed una tenda “salotto” per noi, comoda durante il giorno per proteggersi dal forte sole e di sera dal vento che sale intense in più nottate. Altra “chicca”, il cuoco ci offre subito i suoi servigi, ovvero poiché non ha nulla da fare oltre a cucinare per il barcaiolo, il pescatore e per lui, facendogli avere per tempo le cibarie preparerà anche le nostre. Il pranzo è improvvisato, ma comprendiamo fin da subito come le provviste siano abbondanti e non avremo da risparmiare cibo. Alle 16 c’è il giro alla barriera corallina per entrare nell’acquario, qui il turismo è in sostanza inesistente e di conseguenza la barriera corallina intonsa, per gli amanti dello snorkeling le Dahlak sono un sogno anche se non facilmente raggiungibile. Oltre al tempo del volo (si può arrivare solo ad Asmara) serve un giorno per giungere a Massawa, quindi in pratica almeno 4 giorni tra a/r sempre che i permessi arrivino nei tempi giusti, oltre al fatto che non c’è nulla sul posto e va portata tutta l’attrezzatura, le provviste e definire il passaggio/permanenza con largo anticipo. Al calar del sole, piuttosto rapido e senza regalarci un tramonto da souvenir, la cena è servita dopo poco, 18:30 a tavola, nella tenda “soggiorno” siamo pure dotati di lampada che con un complesso sistema di funi riescono a mettere nel punto più alto e sostituire quando la batteria ci abbandona (scopriremo l’indomani che le ricaricano grazie ad alcuni piccoli pannelli fotovoltaici). Terminata la cena che avrà sempre come base risotto ai carciofi e verdure stufate, c’è tutto il tempo del mondo per andar di chiacchiera, leggere o attendere che il caldo che attanaglia le tende lasci spazio ad una temperatura gradevole. Per dormire sufficiente un sacco letto che verso mattina fa quasi comodo, se si decide di leggere fondamentale la zanzariera da incastrare ben bene attorno alle brandine altrimenti si è invasi da minuscoli moscerini che nulla fanno se non vorticare freneticamente tra luce ed occhi. Per le abluzioni ed i bisogni meglio avere una torcia frontale, appena terminata la sabbia della spiaggia la bassa vegetazione va evitata per non terminare con le caviglie ed i piedi coperti di graffi e tagli.

Keren, parcheggio dei dromedari al mercato


8° giorno

Qui il ritmo di vita è scandito dalla luce, all’alba ci si alza ed i colori sono più intensi rispetto al tramonto, ci prepariamo la colazione attingendo dal monte viveri portato al seguito e appena terminato si salpa in direzione di Dahlak Kebir, l’isola più grande dell’arcipelago che raggiungiamo dopo 45’ di navigazione. Tagliamo le minuscole isole che fanno da corona alla punta più a nord-ovest (Intaraia dovrebbe chiamarsi una di queste, poco di più di un affioramento roccioso) per entrare in una baia naturale dai colori indescrivibili, il mare una piscina colorata. Sbarcati parto subito per un’escursione sulle colline rocciose che regalano viste mirabolanti, tutta questa bellezza senza presenza umana, solo una cospicua colonia di avifauna, pesci di ogni tonalità nell’acqua e piccoli granchi rosa che scappano all’impazzata. Salgo e scendo arrivando anche in un piccolo promontorio contraddistinto da antichi resti di fortificazioni, ovviamente non c’è nessuno a fornire indicazioni ed anche quel poco che le guide raccontano non cita questa zona, dove un tempo era riportato un resort del quale non c’è traccia. Gli unici resti indicati, antiche cisterne, si troverebbero molto più a sud, luogo che non toccheremo. Per chi vuole godersi il mare penso ci sia poco di meglio al mondo, ma pure l’entroterra meriterebbe una visita più accurata, noi ripartiamo dopo circa 3h per far tappa ad un piccolo isolotto che sembra comparso dal nulla, roccioso alla base pressoché privo di spiaggia e verde in cima, Cundibilo (non ho trovato il nome scritto da nessuna parte, riporto quanto indicato dal barcaiolo) dove si fa snorkeling sulla barriera corallina praticamente a ridosso dell’isoletta. Rientriamo alla base verso le 14, nemmeno il tempo di metterci al riparo dall’intenso sole che il pranzo è in tavola, abbondanza di pasta asciutta con condimento relax o all’eritrea, ovvero piccante da piangere. C’è tempo per nuotate nei dintorni della spiaggia e del campo tendato o per riposarsi da un sole accecante, alle 16 il barcaiolo porta chi lo desidera all’escursione alla barriera corallina, qui è ovunque, il problema è per lui trovare il varco che non la danneggi e faccia altrettanto con barca e motore. Io opto per un’escursione a piedi sull’isola nell’area verso sud-ovest, zona rocciosa, per rimirare da quel lato che pare più selvaggio il tramonto, oggi ancora non al massimo ma da qui più intenso. Il rientro al calare del sole non piacevole nella zona rocciosa, meglio lambire la spiaggia, dove questa c’è, nella parte nord quasi inesistente, dalla roccia diretti al Mar Rosso. Approfitto della doccia da campeggio lasciata dagli inglesi, l’acqua l’avevo caricata prima così da scaldarla, un piacere che non avevo messo in conto. A cena, prima delle 19, si alza il vento e la temperatura scende, tanto che nella tenda “soggiorno” alcune aperture devono essere richiuse. Poca scelta, l’amico riso ai carciofi, del pesce pescato nel pomeriggio e il solito purè di verdure, ma non è il caso di lamentarsi. Le tende, caldissime di giorno, lasciano di nuovo spazio ad una serena nottata, un accenno di pioggia ci costringe pure a chiudere alcune protezioni senza causare nessun problema di temperatura.

Arcipelago delle Dahlak, isola Dur Ghella, famiglia di sule leucogaster

9° giorno

Alba tra le nuvole, la tenda ha fatto il suo dovere, niente freddo all’interno nonostante vento e qualche leggero scroscio di pioggia. Colazione fai da te e partenza immediata per l’isola di Ghir Ghir che raggiungiamo in 35’ di navigazione attraversando una nuvola che regala pioggia. L’isola, completamente piatta, si rivela la meno interessante da esplorare, all’interno molti arbusti e limitata presenza di avifauna, qui l’opzione prioritaria se non unica è quella di godersi il mare e le viste subacquee che regala. Se può essere un paradiso per alcuni, per altri diviene non così attrattiva, è praticamente impossibile trovare riparo dal sole, niente scogliere e quindi niente viste scenografiche né ripari dal sole che una volta sbucato si propone immediatamente molto forte. Fortuna che il risicato tetto dell’imbarcazione un minimo di riparo lo regala. Rientriamo circa 45’ prima del solito, pronti per la solita razione abbondante di pasta asciutta coi sughi in alternativa (tanto tonno, per sicurezza abbiamo abbondato con scorte di quel prodotto utile in più maniere), a seguire breve relax. Oggi decido di percorrere a piedi l’intero periplo di Dur Gaam, passando per il lato roccioso, la parte più selvaggia e scenografica dell’isola. Ci trovo anche 2 piccoli resti d’insediamenti in pietra, ovviamente nessuno tra barcaiolo, cuoco e mozzo sa dirmi a quando risalgono e che funzione avessero, qui avifauna solo gabbiani a stormi, banali si potrebbe pensare ma scenografici nel muoversi a centinaia al mio passaggio. Al termine del periplo approfitto nuovamente della doccia da campeggio prima che la sera abbia il sopravvento così da provare a gustare un tramonto in tranquillità, ma pure oggi la presenza verso terra di nuvole copre la vista, e dire che le poche nubi sarebbero un viatico scenografico importante, solo che si concentrano tutte nel medesimo orizzonte per coprire la discesa finale del sole nel mare senza lampi a sovrastarle e colorarle, peccato. Temto di cena, anticipata anche più del solito, il menù è ormai standard, questa sera però non c’è vento e fa più caldo, nonostante questo in tenda calata la notte la temperatura è ottima, niente caldo eccessivo e possibilità di dormire in assoluto relax col solo sacco letto utile di mattina. Per chi vuole allungare la serata leggendo, meglio farlo sotto la tenda “salotto” con luce posta in alto nel giro di funi installato dal cuoco, con la torcia frontale in tenda si richiama un numero spropositato di minuscoli moscerini che riescono in più casi ad introdursi anche all’interno della zanzariera.

Alla ricerca dell'acqua, area di Kohaito


10° giorno

Sveglia all’alba con splendidi colori, dopo nottata senza vento, colazione fai da te (le provviste non calano mai, forse avevamo abbondato oltremisura) e partenza per Dur Ghella, che dalle poche note a disposizione è segnalata come una delle più interessanti dell’arcipelago. La si vede ad occhio anche da Dur Gaam, in 20’ di navigazione si approva sul lato ovest, quello frastagliato e con costa rocciosa alta tra insenature che farebbero la felicità di qualsiasi pittore psichedelico. Per chi vuole, immergersi in queste acque immagino sia un piacere unico al mondo, ma Dur Ghella proprio in questo periodo offre uno spettacolo assoluto. Il lato roccioso è territorio di nidificazione delle sule leucogaster, e proprio in questo periodo le coppie accudiscono ai piccoli appena nati. L’isola è deserta, il vento soffia verso il mare e quindi senza disturbare troppo si può arrivare nei pressi dei tantissimi nidi per ammirare questo splendida specie di volatile. Proseguendo a sud la costa entra maggiormente nel mare e la vista sulla parte che funge da nursery è completa, tra il verde del mare, il rosso delle rocce e il nero con becco viola delle sule. Lo scenario è di suo splendido, continuo il cammino accidentato sulle rocce fino al promontorio a sud per rientrare dalla parte centrale, più alta e meno coperta di arbusti che tagliano, alberi che fungono da casa per falchi. Qui l’avifauna non si risparmia, ha scelto l’isola più scenografica per far base, anche l’occhio vuole la sua parte. Di angoli incantati per nuotare meglio andare sul lato est, sul resto pesci dai mille colori ma anche barriera corallina molto limitrofa alle spiagge, per chi vuole nuotare in libertà un problema. Passata la mattinata rientriamo per il consueto pranzo delle 14, che pare più un rituale degli addetti che nostro, ma qui son loro che comandano. Ennesimo giro di pasta asciutta, verdure, tonno e formaggio, relax e alle 16 ultimi giro al reef, oggi sul lato opposto dell’isola. Ogni uscita pomeridiana è andata in luoghi diversi attorno alla stessa isola, mare non particolarmente caldo oggidì, rientriamo con pochi pesci pescati. Poiché siamo a capodanno chiediamo di poter posticipare la cena, riusciamo a tirare un 19:15, oltrepassato un tramonto al solito coperto e luce già abbondantemente fuggita. Menù del cenone identico a quello dei giorni precedenti, giusto qualche leccornia in più che qualcuno si era tenuto nello zaino (una ratatouille, nocciole piemontesi) in una serata particolarmente ventosa che ci costringere a chiudere più aperture della tenda soggiorno. L’idea del tirare il nuovo anno con l’orario di qui non ci tocca minimamente, fissiamo un’ora della mezzanotte personalizzata (mi pare quella di Dushambe, 2 ore dopo che qui, 2 ore prima che in Italia) tanto nessuno ci contatterà per auguri vari. Da qualche giorno siamo completamente sconnessi da tutto ma nulla cambia nella vita quotidiana, si seguono i ritmi del luogo immersi in un territorio non facile ma che restituisce grande serenità.

Keren, attività commerciale


11° giorno

Solita sveglia all’alba che nuovamente ha colori intensissimi, oggi più che mai, colazione col tanto ancora rimasto e una volta sistemati i bagagli ci prendiamo un ultimo attimo per rimirare l’isola che ci ha fatto da casa per 4 notti. Giro a sud verso la colonia di gabbiani, i nostri vicini di casa, per la classica immagine di cielo e mare coperto dallo stormo in volo (basta avvicinarsi che partono in un centinaio, fanno un sorvolo e si risistemano 10 metri più avanti), poi iniziamo a sistemare nuovamente i bagagli sulla barca, lasciando la parte del cibo non sigillato o non utilizzabile a cuoco e mozzo che rimarranno qui in attesa dell’arrivo di altri turisti. Rispetto al calcolo di 3lt d’acqua al giorno ne avremo bevuto circa 2lt dato anche il caldo molto limitato di notte, quella ci chiedono di riportarla, come marmellate e frutta, prodotti evidentemente qui poco apprezzati. In 70’ raggiungiamo Massawa, al controllo d’ingresso al faro non sopraggiunge nessuno così il barcaiolo ci porta a destinazione presso l’hotel Dalhak che pare molto meglio sistemato rispetto al Central, anche se alcuni avventori spengono le lodi avendoci soggiornato. Va segnalato però come il suo ampio bar sia un punto di ritrovo degli eritrei qui in villeggiatura per le feste di fine anno, forse di meglio non si trova. Il minivan che avevamo lasciato a Foro da riparare è ora in perfette (o quasi) condizioni, stiviamo i bagagli e partiamo per risalire le montagne, destinazione Asmara, non prima di aver convalidato il permesso d’uscita del mezzo al terminal dei bus. Lungo il cammino qualche sosta soprattutto in corrispondenza di vecchie costruzioni del periodo italiano, la guida ci tiene a mostrarle, tabacchi e telefono le insegne che ancora si scorgono. Tappa a Ghinda, un polveroso paesone all’inizio della salita, ad un bar senza nome (8n x un caffè, si può pranzare col solito capretto arrosto o il classico shiro, servito a temperatura di fusione) proprio nella spianata centrale ci fermiamo. Siamo invasi da bambini che cercano di vendere biscotti e caramelle, scacciati malamente dagli anziani, bello assistere al passaggio in piazza, il viavai per il bus di linea che carica e scarica di tutto, pezzo principe le galline legate sul tetto, in un caso visto un bus con 2 capre sul tetto, e chissà se siano riuscite a rimanerci per tutto il tragitto tra curve, salite e discese. Si possono assaggiare anche piccoli triangoli di pasta frolla ripieni di carne o formaggio che alcuni avventori vendono lungo la via a prezzi irrisori (un sacchetto 20n), Ghinda è uno spaccato interessante perché lontana sia dalla capitale ma anche dalle altre città che ricevono i primi turisti, a maggioranza musulmana come nella maggior parte dell’Eritrea dei bassipiani. Rispetto agli altri luoghi emerge anche una povertà molto più accentuata, ma sempre lontana da quelle immagini tremende da Sud Sudan, Congo o similari. Perfino qui una parola in italiano rallegra la persona che si ha di fronte. Dopo oltre 4h di viaggio raggiungiamo la capitale facendo sempre tappa all’hotel Savanna, lasciati gli zaini in camera e goduta una tonificante doccia calda è subito tempo di immergerci nella vita serale di Asmara, le vie piene di gente (non solo giovani) la vasca del giorno di festa fa da contraltare alle serate alle Dahlak completamente deserte. E’ festa, tutti sono in giro, magari pochi cenano fuori, noi siamo tra quelli, finiamo all’Asmara rest. (105n) gestito da un eritreo che parla molto bene l’italiano, non quanto la figlia (vera gestrice) che alterna il lavoro nel ristorante con la scuola italiana, ed i risultati sono evidenti, un eloquio che farebbe impallidire molti nostri coetanei. Dimentico di chiedere uno shiro all’europea, è talmente piccante che dopo pochi assaggi desisto. Terminiamo la serata concedendoci anche noi lo struscio serale, ben coperti perché anche questa sera la temperatura precipita.

Tra Asmara e Keren, ricordi della guerra d'indipendenza dall'Etiopia


12° giorno

Mi regalo una prelibata colazione al caffè Fiori (31n) che funge anche da pasticceria, un angolo d’Italia nella tradizione eritrea, molto frequentato a qualsiasi orario. Questa mattina ho tempo, per chi vuole l’agenzia Erinine organizza il tragitto col vecchio treno a vapore che un tempo scendeva a Massawa. Ora il servizio non esiste più, se un gruppo di turisti intende “noleggiare” il vecchio treno si può percorre il tragitto da Asmara a Nefasit, scendendo circa 700m di dislivello. Il percorso ricalca indicativamente quello attraversato più volte scendendo e salendo dal mare, evito questa gita che nulla ha d’autentico e tempi vaghi per farmi un nuovo giro in città tra i mercati, quelli sì sempre particolarmente autentici ed interessanti. Per chi fosse interessato alla tratta ferroviaria, il prezzo varia in funzione dei presenti, occorre garantire il costo di almeno 20 persone, si va da circa 60$ a salire se il numero di persone non viene raggiunto. Mettete in conto svariate ore, il treno è vecchio, i pezzi di ricambio non si trovano, deve raffreddare spesso la locomotiva, insomma, per percorrere 25km a/r possono servire anche 6 ore. Ottenuto il permesso per Keren nel primo pomeriggio si parte per la principale città del nord aperta a tutti, la seconda città dello stato circa 1.000m più in basso della capitale dal clima molto più caldo e secco, che dista circa 100km percorribili in oltre 3h, comprese brevi soste fotografiche. Il percorso sale leggermente lungo la vecchia strada italiana ancora in discrete condizioni (la chiamano loro così, in realtà è la stata P2), sovente condivisa con mandrie di mucche o capre, ai lati ancora resti di carrarmati della guerra d’indipendenza che da queste parti picchiò forte. Quando la strada inizia a scendere si entra in gole contraddistinte da un’abbondanza di cactus candelabro che con la luce del tramonto sono uno spettacolo di alto profilo. La strada peggiora, quando si passa il doppio muro di contenimento della guerra italo-britannica il passo rallenta ma v’è la possibilità di vedere alcuni villaggi tipici con abitazioni a tukul, sono dell’etnia bilen, ora è già tardi, proveremo a fermarci l’indomani. Prima dell’ingresso a Keren canonico controllo dei permessi, nostri e del mezzo su cui viaggiamo, tappa all’hotel Sarina (doppia per 700n, ma ci applicano uno sconto del 10% senza neppure richiederlo, unico a praticare un prezzo minore per camera uso singolo, 500n con sconto 10%) circa 2km prima del centro, decisamente l’hotel migliore incontrato in Eritrea, bella camera con splendido bagno ed acqua corrente calda, colazione compresa e volendo wi-fi con codice rilasciato in guardiola, ma connessione praticamente inutilizzabile. Doccia splendida e poi via in centro città accompagnati in minivan dalla guida, quanto mai utile presso il ristorante del Keren Hotel (110n) poiché il menù è solo in tigrino. Cena potabile se si ha l’accortezza di segnalare un piccante moderato in ogni piatto, con consommé offerto, appena terminato tentiamo un’escursione in città notando come già alle 21-21:30 il deserto la contraddistingua. Tutto gravita attorno alla grande rotonda in pieno centro, pure qui non c’è nulla, nemmeno un bar dove sorseggiare un tè o una birra, qui la vita è scandita dal ritmo della luce solare che ci ha abbandonato già verso le 18-18:30. Temperatura ottima anche di notte, non serve né felpa né antivento, mentre nelle camere in hotel fondamentale la ventola anche per rendere la vita complessa alle zanzare (unico luogo dove si sono incontrate).

Giovani presso il villaggio bilen di Adiberbere


13° giorno

Colazione in hotel, non a buffet ma a scelta un piatto con uova, pane-burro-marmellata e bevande, velocemente partiamo per l’escursione della città incominciando dai cimiteri di guerra, prima quello britannico a nord dove riposano molti sudanesi che combatterono per la Gran Bretagna, a seguire quello italiano più centrale, a sua volta pieno di ascari abissini al servizio degli italiani. Non lontano sorge il più celebre dei monumenti religiosi, il San Maryam Dearit, in un ampio complesso il santuario è posto all’interno di un gigantesco baobab. Già, non pensate ad una piccola icona, proprio un santuario vero e proprio nella cavità di un baobab della circonferenza di oltre 10 metri, dove leggenda narra che più combattenti trovarono riparo durante le guerre che qui sono passate. Liberi di crederci a queste leggende, l’albero ed il santuario sono però veri e visitabili lasciando una piccola mancia al monaco che accompagna. Ed ora è tempo di entrare e vagare in città, che vede muoversi un numero impressionante di viandanti, quasi tutti a piedi, dromedario, asino o cicli trasformati in inventive fattezze. Iniziamo dal mercato dei cereali, a suo modo ordinato e dai colori più svariati, dati appunto dai tanti tipi di cereali che qui si trovano, su tutti quello con cui si prepara l’injera, il teff. Due parole in italiano e scatta il gemellaggio, alla fine anche i più restii diventano amichevoli ed i soggetti fotografici sono numerosi, dalle prime preoccupati di quello che ne uscirà, alla fine non vorrebbero più staccarsi. Da qui, comprato il cereale si passa alla zona del setaccio, in parte con vecchi macchinari magicamente ancora funzionati, in larga parte a mano, interessante assistere al lavoro ed al mercanteggiare dell’azione, poi proseguiamo incrociando svariati avventori che giungono coi loro dromedari stracarichi di mercanzie. C’è la parte dei prodotti freschi tutta ben impostata, la parte dei vestiti con nelle vicinanze coloro che con vecchie macchine Singer riparano e sistemano a spron battuto per arrivare al richiamo principale della città mercato di Keren, l’argento. Qui si compra e vende qualsiasi manufatto in argento o oro, ma è l’argento la specialità del posto e minuziose sono le lavorazioni. La via in cui trovare le botteghe ha punti di ristoro, il tè è bevanda principe, e gustarsela in loro compagnia su sedie dalla dubbia tenuta un piacere unico (3n). Durante la stagione secca il fiume che taglia la città (un affluente dell’Anseba) fa da base al quotidiano mercato all’aperto, diviso tra cibo e prodotti per abbigliamento merita una visita, passando sotto i teli che fanno da protezione dal forte sole. All’estremità nord c’è il parcheggio dei dromedari, proprio qui, ma solo il lunedì, si estende il mercato dei dromedari. Sotto al ponte della via principale si appostano le signore che fanno da “bar”, cosa di meglio di un tè (3n) qui sotto dove c’è un’areazione naturale? Altra maniera di entrare in confidenza con la gente del posto, che curiosa prova a scambiare 2 parole, anche se va detto, riuscirsi è arduo, che sia in italiano o inglese, si familiarizza con un sorriso e una foto. Son già le 14 passate quando facciamo tappa nel dehor di un ristorante senza nome nella piazza dei fiori centrale, approfittando del luogo per consumare una delle tante scatolette di tonno rimaste dall’escursione alle Dahlak. Un buon caffè non me lo nego (10n), giusto prima di passare a vedere la vecchia stazione ferroviaria dove giungeva come ultima tappa del percorso la linea Massawa-Asmara-Keren, sulla costruzione ora adibita a bar e spazio gioco carte/dama svetta ancora il vecchio nome italico di Cheren. Nella piazza sterrata antistante ad una sorta di stazione dei bus, di ogni tipo e per ogni carico, una confusione festosa sotto un sole che spacca pietre e catene. E’ già ora di rientrare, con sosta al villaggio bilen di Adiberbere (o Scirhedrai come mi è parso di intuire nell’idioma del luogo) lungo il percorso. Proviamo a verificare se ci sia permesso l’accesso, una volta concesso si guada il uadi secco del fiume Anseba e si accede al villaggio con costruzioni tucul di questa etnia cattolica in un angolo musulmano dell’Eritrea (i bilen non hanno una propria fede religiosa, ce ne sono di cattolici come questi ma anche musulmani). Se ora il fiume è attraversabile perché completamente secco, nella stagione delle piogge occorre reggersi ad una fune che lo sovrasta e con la forza delle braccia spostarsi sul versante della strada, i bambini lo fanno ogni giorno per andare a scuola, oltre ai circa 45’ a piedi da qui a Keren. Le genti che abitano il villaggio sono particolarmente socievoli, ci aprono case e orti, chi è nei campi rientra appositamente, nessuno vuole sentirsi escluso. Interloquire con loro è possibile solo tramite la guida date le differenze linguistiche, l’interno dei tucul, ben tenuto (e non certo per la nostra visita casuale) mi ricorda le gher mongole anche se i tucul sono decisamente più piccoli, da un lato la parte notte, dall’altra la parte cucina con le stoviglie riposte come una piccola opera d’arte. Non una briciola per terra, un pulito in grande contrasto con l’esterno tutto in terra, legna accatastata e capre legate al pozzo dell’acqua che si trova appena fuori dal villaggio nei pressi del fiume. Risaliamo la valle rimirando nella luce migliore i cactus candelabro e i carrarmati, lasciati dove furono fatti saltare a imperitura memoria della liberazione dall’Etiopia. Rientrati ad Asmara al solito Savanna Hotel, riprendiamo il bagaglio lasciato in deposito (per le escursioni di una sola notte meglio girare con poco peso al seguito lasciando il grosso alla reception) e dopo una doccia ristoratrice è tempo di cena in centro città, tappa al quotato New Fork (150n) molto frequentato, tanto che senza prenotazione fatichiamo a trovar posto. Buona qualità con tempi più dilatati, stranamente i prezzi che paghiamo sono più bassi di quanto riporti il menù, strana ma simpatica usanza. Visto che siamo in capitale, ci immergiamo nella vita serale, che consiste nel farsi la vasca delle vie centrali, approfittando di un passaggio dal caffè Fiori per recuperare valide paste per la colazione dell’indomani. Non c’è vento nella serata ma la temperatura fa sì che un pile sia necessario.

Valle dei sicomori, fuori Segheneyti

14° giorno

Sveglia anticipata, colazione col makiato dell’hotel (12n) e con le brioche comprate il giorno prima al caffè Fiori, poi subito via verso sud. Rimarremo fuori Asmara per una notte, anche in questa occasione è possibile lasciare gran parte dei bagagli in hotel per essere più leggeri ed avere più spazio a disposizione nel minivan che abbisogna di più soste per sistemare il filtro dell’aria ma soprattutto quello della benzina, sostituito più volte. Via lungo la statale P3 ora percorribile fino al confine che lambiremo l’indomani, dopo canonico controllo permessi in uscita dalla capitale, operazione che è ripetuta all’ingresso ed uscita da ogni paese incontrato, anche se in realtà sovente basta un cenno dell’autista. Passiamo da Dekemhare, prima dell’ingresso vero e proprio un intarsio nella montagna documenta la costruzione della strada da parte italiana, mentre dall’altra parte sorge ancora un grande portale di epoca etiope, era uno stabilimento al tempo del DERG, a fianco resti di carrarmati, una vista quasi quotidiana da queste parti. Dekemhare era la cittadina di riferimento per le genti italiane, il centro è ancora lasciato a quell’epoca e pare proprio di visitare un assonnato paese di provincia tutto giallo paglia col bar centrale, il cinema Imperiale e le piazze tipiche dei nostri luoghi, magari percorse più da animali che da mezzi a motore. La strada inizia a peggiorare inoltrandoci nelle prime montagne, passando da Meareba si avvistano le prime piccole ambe (montagne piatte che paiono un unico monolite) e facciamo tappa a Segheneyti presso la comunità delle monache di Inda Padre che gestiscono un asilo e un piccolo laboratorio tessile. Un numero indefinito di bambini nei loro candidi grembiuli blu sta ascoltando in composto silenzio le indicazioni delle monache, sono curiosi ma tranquilli, ovviamente quando gli viene dato il via ci assalgono curiosissimi, nel laboratorio si possono acquistare capi prodotti su rudimentali telai, nello spazio interno attorno al pozzo (l’acqua corrente non c’è) è dipinta un’interessante mappa dell’Eritrea che delinea le province (6) e le etnie (9). I prezzi dei manufatti sono economici rispetto a quando s’incontra solitamente in luoghi analoghi, lasciamo una mancia per la visita mentre appena fuori faccio notare in una piazza sterrata antistante la presenza di uno splendido canestro sotto al quale più che giocatori tagliano a canestro i buoi. Poco fuori dal paese, in una deviazione sulla sx non segnalata si arriva alla celebre valle dei sicomori, enormi alberi che in questa piana fanno bella mostra di se, uno dei quali è immortalato nella banconota da 5 nafka. Oltre all’ombra preziosa che elargiscono sono altamente scenografici, vantano almeno 300 anni e svettano giganteschi tra colonie di cactus candelabro, un passaggio sotto alle fronde regala un concerto di uccelli che magari non si avvistano nemmeno ma non udirli è impossibile. Da qui si prosegue inoltrandoci tra le montagne lungo un cammino tortuoso e pressoché solitario fino alla meta di giornata, Adi Keyt dove facciamo tappa al Central Hotel (400n x camera doppia) considerato il meglio in città ma già in pessime condizioni, poche camere con bagno, quasi nessuna doccia con acqua calda, a volte proprio niente acqua, tazze senza sciacquone e quasi nessuna che funzioni, niente colazione ma una specie di bar con tempi da bradipo, e un senso di decadenza dato anche da varie parti che cadono a pezzi. Wi-fi sconosciuto, ma questo è il problema da meno, tempo per un giro della cittadina, trafficatissima lungo la statale, percorsa da mille persone che si spostano da e per il mercato, unico posto dell’area dove trovare gasolio. La parte nuova e commerciale della città sorge lungo la via maestra, la parte vecchia con gli edifici religiosi a ovest sulla collina opposta, nel mezzo una terra di nessuno assolata piena di gente a sedere, non sono riuscito a farmi spiegare cosa facessero, nella parte nuova un sacco di ragazzi giovani usciti da scuola che qualche parola d’inglese la masticano, molto più curiosi loro della mia presenza lì che io nel cercare di capire cosa avvenga in città. Tante piccole botteghe, numerosi i negozi di scarpe, ma piccoli bar, forni o pasticcerie non mancano (ovvio che sono da intendersi all’eritrea), la città è viva ed in fermento anche se un cartello spiega bene di non avventurarsi troppo fuori dal centro abitato per il pericolo delle mine, avvicinandoci al confine entriamo in un’area dove la guerra era intensa e non tutto è ancora sistemato. Prendo una pasta in un luogo (3n) ed un tè in un altro (5n), tutto molto veloce e comodo prima di partire per il più celebre sito archeologico dell’Eritrea, Kohaito. Dista circa 10km a sud su strada asfaltata con molti lavori nel mezzo, poi svolta a sx per altri 10km su percorso sterrato, impieghiamo oltre 30’ per giungere in un villaggio remoto in cui svetta nel nulla una moschea particolarmente scenografica. Qui ci sono svariati luoghi da visitare, fondamentale è trovare l’addetto che pare essere alla festa per il matrimonio del giorno seguente della figlia. Dopo circa 30’ compare tra la festa di mezzo presente che staziona curioso attorno a noi, partiamo per la visita al canyon e alle pitture rupestri di Adi Alauti. Va detto che senza guida non è facile identificare il sentiero, poi chi soffre di vertigini eviti il passaggio, alcune parti sono a bordo del crepaccio, nulla a cui reggersi su pietre mobili, lo spettacolo però è fantastico anche perché sul versante opposto svettano le cime più alte dell’Eritrea, proprio dritta a noi quella del Monte Ambasoira, di poco più di 3.000m. Le pitture in sé per sé non dicono più di tanto, anzi, senza le indicazioni della guida alcune di queste potrebbero raffigurare qualsiasi animale (che sia gazzella, rinoceronte o leone, invece di cane e gatto è dato solo dalla spiegazione della guida), certo che incise oltre 6.000 anni fa è già tanto poterle rimirare. Non c’è nessuna protezione, non so quanto potranno durare nel tempo, la guida le indica puntandoci sopra il suo ditone…A passo lento s’impiegano circa 30’ dalla partenza al punto delle pitture rupestri, non tanto per la lunghezza del sentiero ma per quanto sia accidentato e pericoloso. Rientrati ci spostiamo al sito simbolo di Kohaito, le colonne del tempio di Mariam Wakiro che nel punto più alto dell’area svettano solitarie su rovine che con tutta probabilità conterranno preziosissimi reperti di questa civiltà in larga parte ancora sconosciuta. In alcuni punti ci fa notare che se facciamo cadere una pietra udiamo il rimbombo del vuoto sotto ai nostri piedi, servirebbero ancora tanti soldi per procedere con gli scavi. Da qui scendiamo e risaliamo al punto panoramico sui canyon che si perdono a vista d’occhio in pratica fino al mare. E’ già ora del tramonto, magari meglio arrivare con un po’ d’anticipo, ma lo spettacolo perde sì d’intensità ma guadagna di mistero con le terre basse che si perdono nel nulla, si avvistano i sentieri che le carovane percorrevano per scendere al porto di Adulis, tutto si riconnette da quassù. Ricorda l’enormità dei canyon a Creel, Mexico, là dove la barranca taglia la terra con canyon profondi fino a 2.500m, qui però con un isolamento assoluto. Ma non abbiamo terminato, passiamo da un pozzo dove gli abitanti vanno con asini e dromedari a recuperare l’acqua per le abitazioni e dove sorge un’antica tomba egizia, altro mistero del luogo, da qui il tramonto sullo skyline del villaggio regala un’iconica vista della moschea che si colora di giallo e poi di rosso, rientrando bordeggiamo un piccolo lago artificiale dovuto alla diga di Saphira, anche se resta il dubbio che fosse un’unica enorme cisterna, della quale rimane solo una parte a formare la diga. Salutiamo la guida lasciandogli circa 100n di mancia, è già buio quando iniziamo il rientro lungo il sentiero in terra battuta perdendoci. Con i nostri navigatori off-road (non pensate di utilizzare qualcosa on line qui) non troviamo il sentiero ma abbiamo un’idea di dove potrebbe essere la strada, così vagando verso quella dopo 2 o 3 info chieste a gente che abita nel nulla del nulla di quest’altipiano battuto dal vento è festa grande quando ritorniamo nella statale per Adi Keyt, dirigendoci subito a cena. Qui le tempistiche sono ancora più anticipate che altrove, troviamo posto solo al Milan City Park (95n), qualità pessima ma altro non c’è, un cartello indica che le bevande alcoliche non sono servite, ma se richieste, vanno loro a comprare la birra all’esterno e la servono senza problemi. Notiamo che qui nessuno cena, i giovani locali si ritrovano nel locale e bevono bicchieri di latte a profusione, che sia il latte+ di Arancia Meccanica? Di sera la temperatura in città, dopo il caldo intenso del giorno, precipita, i quasi 2.400m si fanno sentire. Per riuscire ad avere una doccia calda occorre testare tutte le docce del malandato hotel, alla fine ne scovo una, regolabile tra caldissima ed ustionante, ma una doccia fredda con la temperatura esterna attuale è sconsigliabile. Asmara-Adi Keyt distano indicativamente 110km, percorribili in 3h senza soste.

La moschea di Kohaito (parte moderna dell'antico insediamento pre aksumita)


15° giorno

All’alba a Adi Keyt quasi tutte le attività sono chiuse, prima delle 8:30-9 nulla apre, così per colazione un tè in hotel (5n) e le marmellate rimaste dalle Dahlak col pane della sera prima, della serie, meglio non buttare via nulla. Si parte per Senafè e le celebri Dolomiti, meno di 30km di strada pessima, tra deviazioni per lavori, animali, buche enormi ma anche viste mozzafiato. Impieghiamo circa un’ora con alcune soste fotografiche, tra ambe che si susseguono fino a Amba Metera che sorge proprio nel centro della cittadina, dove la popolazione arriva a fiotti a piedi o su carretti per il mercato. In città dobbiamo recuperare il permesso per accedere al sito di Metera, che si raggiunge da una laterale sterrata della via principale a sud della città, in pratica nell’ultimo tratto di strada eritreo prima del confine con l’Etiopia, tratto che fino a settembre non era percorribile quindi i controlli, soprattutto per gli stranieri non mancano. Mentre attendiamo rimiriamo le ambe nel pieno centro cittadino, sotto ad una di queste un distributore Tamoil di chiara architettura italica praticamente inutilizzato dato il parco automezzi che va più a fieno e carrube che benzina. Arriviamo così al sito archeologico di Metera, contraddistinto dall’enigmatica stele nel suo centro proprio sotto all’Amba Saim. Al di là del significato che ancora è controverso, va segnalato che il sito è pre aksumita, uno dei più antichi ritrovamenti al mondo, oltre 6.000 anni fa, e che nella piana “dolomitica” è uno spettacolo assoluto tra spazio, colori, rocce e rovine. Poco è ancora scavato, la guida ci fornisce la sua interpretazione, dicendoci chiaramente che ci illustra quello che la scuola italiana di Asmara le ha spiegato ma che pure altre teorie possono trovare un fondo di verità, conviene lasciarsi cullare da questi panorami di montagna che paiono però nel deserto, stranianti. Lungo i sentieri limitrofi, un fiume di gente che con ogni carico sulle spalle quando non su buoi o asini raggiunge la città per scambiare merci, qui il baratto ha ancora un valore, forse pure superiore a quello del denaro. Sull’Amba Metera sorgono alcuni monasteri, la salita alla sommità richiede tempo e abilità con una parte in cordata, poiché non possiamo rischiare dovendo rientrare per l’aereo in nottata, ci fermiamo al monastero posto all’inizio della salita, all’interno del quale vi è anche una costruzione con inserti a testa di scimmia, come sono denominati qui le strutture con supporti orizzontali in legno sporgenti. Si può salire sulla piccola amba che ne cinge il perimetro per godere della bella vista a sud fino al confine, spazi ora aperti, sperando che possano restare tali. Prima di uscire da Senafè occorre di nuovo registrare il nostro passaggio, poi un ultimo sguardo al mercato cittadino e via verso il ritorno. Notiamo che i lavori di ripristino della strada sono effettuati da incaricati con divise da carcerati e scortati da addetti dotati di fucili, in effetti ci viene confermato che questi lavori stradali sono affidati a carcerati ai quali manca giusto la palla di ferro al piede. A loro discapito, per il lavoro di 4 persone, sono in 20, lavoro duro ma a ritmi lenti, più da consulente che da operaio. Raggiunta Adi Keyt, sosta al mercato per comprare 2 taniche di gasolio che non si trova dai distributori fuori capitale, un salto dal fornaio per qualche prelibatezza locale (ogni pezzo a 3n) e poi tirata fino ad Asmara in circa 3:30 con sosta cibo per l’autista a Dekemhare in caratteristico ristorante con nome solo in tigrino. In città tempo per un ultimo giro in centro, poi in hotel per sistemare il bagaglio e utilizzare i bagni comuni per una rinfrescata prima di uscire a cena. Vorrei cambiare gli ultimi nakfa rimasti in $ o €, giorni prima alla reception ci avevano dato la possibilità di farlo, ovviamente ora si trovano sprovvisti di monete straniere. Anche all’ufficio Western Union niente da fare, arrivo 5’ prima delle 18, orario di chiusura, ma lo trovo già ben serrato. A questo punto provo un popolare locale che riporta solo la scritta pizza, con ovvi prezzi popolarissimi (90n x gigantesca pizza piccante e bibita) ed un salto al bar del teatro dell’opera (caffè 10n) dove sfruttare un wi-fi appena decente (30’ x 10n, oppure 60’ x 15n) giusto per comunicare che il viaggio è giunto al termine e il rientro è prossimo. Col solito minivan andiamo all’aeroporto arrivando circa 2:30 prima del volo, verso le 22. Lo troviamo chiuso, con gente in attesa dalle 19 all’aperto nel parcheggio che aveva pensato di far tappa qui, magari mangiare qualcosa nel frattempo, peccato che l’aeroporto internazionale di Asmara apra solo in concomitanza con i rari voli per l’estero, quasi tutti di notte come quello della Turkish. A noi va bene, dopo 15’ arrivano gli addetti, c’è il controllo ai raggi X dei bagagli all’ingresso e del passaporto, il check-in è veloce e le addette parlano un buon italiano, il controllo del passaporto in uscita è più veloce dell’ingresso, ma circa 3’ li richiede. Poi 3 persone sedute subito dopo il controllo devono verificare che la collega abbia apposto il timbro giusto, un nuovo controllo raggi X e si sale ai gate di partenza. In teoria i nakfa non sarebbero esportabili, l’ufficio cambio non è però raggiungibile da questo versante dell’aeroporto e saliti ai gate di partenza stanno aprendo 3 negozi dove qualche paccottiglia è esposta con prezzi europei per prodotti evitabilissimi, giocano sulle rimanenze dei nakfa. In realtà se si vogliono portare fuori soldi come souvenir nessuno controlla nulla, quindi fattibilissimo. In un aeroporto deserto, saremo in 30 non di più nel gate, attendiamo il volo Turkish che sarà puntuale, nessun annuncio, nessun monitor ad indicarlo, c’è un solo gate aperto dei 2 presenti, con un gesto ci chiameranno quando sarà il momento.

La stele di Metera e le dolimiti di Senafè

16° giorno

Passata mezzanotte è tempo di salire su di vecchio e scassatissimo bus per fare i 100 metri nel vuoto e buio della pista dove staziona il volo Turkish destinazione Istanbul che parte puntuale, più vuoto che pieno. La cena è servita quasi subito, buona come all’andata, ci sarebbe la possibilità di utilizzare i servizi dello schermo a disposizione, ma dato l’orario e la giornata alle spalle provo a dormire, come quasi tutti mi par di capire, in un caldo tropicale che avvolge l’airbus in ogni dove. Prima della discesa ad Istanbul rapida colazione, atterriamo dopo 4:30 puntuali nello stesso aeroporto dell’andata, Ataturk. Significa che l’immaginifico nuovo Istanbul International, che tanto ha spinto per crearlo in tempi da record il governo turco, non è ancora entrato in funzione, disdicendo quindi le previsioni del 1° gennaio 2019, per fortuna ci viene da dire, poiché un aeroporto ai primi giorni d’operatività qualche inconveniente lo avrebbe potuto presentare. Questa volta i controlli in arrivo ci sono, anche se veloci, ho quasi 4h di attesa, grazie al wi-fi (va fatta la registrazione poi si hanno 2h di navigazione a disposizione) butto un occhio su cosa sia accaduto nel mondo in questi 15 giorni mentre attendo il volo per Bologna, il cui gate è indicato sui monitor solo dopo 2h. Sempre Turkish, raggiungibile col pullman interno, questa volta completamente pieno, anche qui appena saliti in quota è servita una colazione abbondante, dopo circa 2:40 di volo atterro a Bologna in perfetto orario con un bel sole ed un freddo intenso, condizioni che in Eritrea erano in antitesi, se sole bel caldo di giorno, se freddo notte fonda.

Tempio di Mariam Wakiro, Kohaito, sito pre aksumita

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